Domenica, 02 Dicembre 2018 12:45

La “serra” dei monaci, un frammento di archeologia industriale dimenticato

Scritto da Tonino Ceravolo
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Il visitatore che dovesse imbattersi oggi, supponiamo per puro caso atteso che non si trova un qualsiasi segnale stradale che indichi la sua esistenza, nel rudere della cosiddetta “serra dei monaci” difficilmente riuscirebbe a comprendere l’antica funzione di questo notevole frammento architettonico, tra i più tristi esempi della damnatio memoriae che tante volte ha colpito il patrimonio culturale del territorio. Fatto particolarmente rilevante (e preoccupante) se si pensa che le segherie appartenute alla Certosa di Serra San Bruno sono documentate almeno sin dalla metà del XVIII secolo e che di esse si può leggere una descrizione letterariamente efficace nel notissimo giornale di viaggio di Horace Rilliet (talmente importante da essersi meritato un’entusiastica nota di Benedetto Croce), il chirurgo ginevrino che giunse in Calabria e a Serra nel 1852 al seguito del re Ferdinando II. “Il paesaggio - scrive Rilliet - ha realmente le caratteristiche delle nostre montagne della Svizzera: una segheria di tavole impiantata sul corso del ruscello, lungo il quale sono sparsi tronchi d’alberi, la piccola casuccia grossolanamente costruita con tavole mal congiunte, la foresta di abeti da dove esce spumeggiante la cascata che fa muovere la sega, tutto ciò forma un quadro alpestre dei più pittoreschi”. E con sguardo rivolto alle condizioni economiche del comprensorio all’indomani del terremoto settecentesco, già Domenico Grimaldi, nella sua Relazione umiliata al Re di un disimpegno fatto nella Ulteriore Calabria, aveva avuto modo di richiamare la presenza delle segherie certosine, fondamentali, a suo dire, per la complessa opera di ricostruzione successiva al sisma del 1783: “Le montagne fanno corona ad una parte della pianura, e sono vestite quasi tutte di abeti dalle quali si ricava ogni anno un considerabile numero di tavole per mezzo di tre seghe mosse dall’acqua, onde il prodotto più ricco della Lega sono appunto le tavole al presente cotanto necessarie per la riedificazione della Provincia”. Tali osservazioni trovano un significativo riscontro nella documentazione iconografica e archivistica settecentesca, nella quale la presenza delle segherie è segnalata come una delle attività produttive certosine più rilevanti. È il caso del catasto onciario relativo a Spadola e Serra, ultimato nel 1746, che riporta, accanto a sei mulini e a un battindiere, anche due segherie ad acqua ubicate in località S. Maria del Bosco e Archiforo. Di quest’ultima segheria esiste, peraltro, una precisa traccia anche nelle carte topografiche del XVIII secolo che descrivono il territorio della “Lega” certosina donata a San Bruno da Ruggero il Normanno nel 1093. Nel quarto volume del manoscritto della Storia certosina di Dom Benedetto Tromby, per esempio,  è contenuto un disegno - “quasi barocco”, secondo il giudizio di Ilario Principe - nel quale, proprio in località Archiforo, è indicata la presenza di una Serra Tabularum, una “serra” che ritroviamo, con identica denominazione volta in italiano, nella carta topografica pubblicata nella Difesa degli antichi diplomi normannici spediti a favore della Reale Certosa di S. Stefano di Bosco di Carlo Franchi del 1758 e in una mappa, incisa da Filippo de Grado, inserita da Francesco Vargas Macciucca nel suo Esame delle vantate carte, e diplomi de’ RR. PP. della Certosa di S. Stefano del Bosco in Calabria pubblicato a Napoli nel 1765. Al confine tra il territorio di Serra e quello di Brognaturo l’iconografia settecentesca consente di rintracciare un’altra segheria ad acqua, la Serra Chindillorum del manoscritto Tromby, che dalle indicazioni riportate in alcune delle carte a stampa sopra citate apprendiamo essere stata “diruta” già prima del terremoto del 1783. Di essa abbiamo una breve descrizione in una nota di Dom Basilio Caminada (bibliotecario e archivista della Certosa) risalente agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso: “Assai più dentro nei boschi di Serra [...] c’è la Sega di Chindilli, detta anche di Cici Pupo. È rovinata gravemente ma conserva ancora i 6 rulli che dovevano servire ad avvicinare le tavole al ferro della sega, anzi con qualche rullo supplementario, e perfino con il ferro della sega, a testimonianza irrefragabile della sua funzione antica. Vicine a questa sega si trovano alcune case abbandonate ed in stato di degrado avanzato”. Probabile erede della Serra Tabularum è la “serra dei monaci”, le cui vicende di progressivo degrado architettonico siamo in grado di seguire fino ad anni recenti. Il documento fotografico più interessante è una lastra fotografica di fine Ottocento (fig. 1), conservata, insieme con altre, nell’archivio della Certosa di Serra San Bruno. In questa lastra la struttura architettonica frontale della segheria è perfettamente leggibile, così come risulta con evidenza delineato il contesto ambientale nel quale essa si trovava collocata: il canale di alimentazione ricavato dalle acque del fiume Garusi in primo piano, le sparse presenze di architetture rurali di là dal canale, la catena montuosa delle Serre calabre sullo sfondo. Di notevole interesse sono due elementi decorativi, sistemati in posizione centrale sul fronte d’ingresso della costruzione, ben visibili in due scatti fotografici degli anni Sessanta del Novecento (figg. 2 e 3): una statua granitica di San Giuseppe con Gesù Bambino in braccio e un grande pezzo di pietra con il simbolo CAR (= Cartusia) dentro cui va a innestarsi una croce (Stat Crux dum volvitur orbis, ovvero “La Croce rimane salda mentre il mondo gira”, come recita il motto dei certosini). Ai piedi di San Giuseppe, come epigrafe della base sulla quale poggia la statua, sta un versetto del Cantico dei Cantici: POSUERUNT ME CUSTODEM [in vineis] (Ct 1, 6). La segheria, non più in possesso della Certosa e che aveva ormai smesso ogni funzione, fu interessata, nel tempo, da un forte processo di depauperamento, documentato a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, tanto che il 19 agosto del 1968, durante lo spaziamento settimanale, due monaci certosini notarono la sparizione della statua e del piedistallo che la sosteneva (fig. 4), come si legge in un’annotazione di Dom Caminada. L’opera di trafugamento degli elementi decorativi originari venne successivamente completata con l’asportazione anche del monogramma certosino posto sull’arco granitico centrale del complesso architettonico. In questo modo, dopo aver cessato le funzioni produttive, la “serra dei monaci” perdeva anche la propria identità di eminente “monumento” dell’archeologia industriale delle Serre.

Didascalie:
Fig. 1 (immagine principale dell'articolo, in alto): Anonimo (Giuseppe M. Pisani?), La serra dei monaci, lastra fotografica di fine Ottocento, ACSSB.
Fig. 2 (in basso): “Serra dei monaci” e statua di San Giuseppe (Foto Archivio Certosa).
Fig. 3 (in basso): Statua di San Giuseppe e monogramma certosino  (Foto Archivio Certosa).
Fig. 4 (in basso): L’arco granitico centrale della “serra dei monaci” dopo il trafugamento della statua (Foto Archivio Certosa).

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