Domenica, 27 Novembre 2022 07:30

Le storie dell'alluvione: il carbonaio, il liutaio e i morti abbracciati

Scritto da Sergio Pelaia
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La voragine che a causa dell'alluvione del 1935 si aprì su corso Umberto I, proprio di fronte al municipio di Serra San Bruno La voragine che a causa dell'alluvione del 1935 si aprì su corso Umberto I, proprio di fronte al municipio di Serra San Bruno

Sono “piccole” storie, ma rappresentano importanti crepe di memoria nel muro di oblio che il tempo ha eretto sopra le vittime dell’alluvione del 21 novembre del 1935. Riguardano perlopiù Serra San Bruno, ma sono esemplificative del tragico tributo pagato da tutti i paesi - a Spadola persero la vita anche due bambini (i nomi in questo post di Vitantonio Tassone) - che furono colpiti dalla furia dell'acqua. Le abbiamo ricostruite incrociando fonti scritte e orali: sono tratte dalla lettura dei documenti custoditi nell’archivio comunale serrese recentemente recuperato, dalla tradizione orale, da alcuni libri e da quanto ancora oggi ricordano i discendenti di chi pagò con la vita quei 509 mm di pioggia caduti a Serra in neanche un giorno. Non è certo un racconto esaustivo, ma è una piccola traccia di memoria che si stava perdendo e che ora speriamo resti. Cominciamo dalle vittime: abbiamo 14 nomi di morti serresi comunicati nell’immediatezza alla Prefettura di Catanzaro (potete leggerli qui nel documento originale). Col passare dei giorni però il podestà dell’epoca (Vincenzo Agostino) fa sapere al prefetto che le vittime sono «sedici»: lo si legge nel frontespizio di un documento corretto a penna, ma purtroppo manca l’allegato con l’elenco completo dei nomi. Il 3 dicembre 1935, poi, viene segnalato che alla triste lista mancavano «due giovinette di questo Comune, morte in Satriano per la caduta di una frana».

Il carbonaio disperso e lo shock della madre

Nella stessa carta si menziona Salvatore Raffaele Candeloro (“Rafieli di lu Ninnu”), carbonaio, il cui cadavere «non si è ancora rintracciato, ha lasciato quattro figli minorenni e uno maggiorenne». Il 13 dicembre affiorano altre informazioni. Il podestà le ha apprese da due persone che lavoravano con Candeloro. «La sera del 21 novembre 1935 – riporta il documento del 13 dicembre – rimase a lavorare in contrada “Angelaro” e la mattina seguente in seguito al nubifragio che devastò Serra San Bruno ed i terreni adiacenti non si rintracciò affatto, nonostante le diligenti ed accurate ricerche. Si ritiene perciò, che sia perito trasportato dalla violenza delle acque, anche in considerazione che la pagliaia, dove il Candeloro si ricoverava venne distrutta ed il terreno franato e sconvolto». Lo ha confermato una pronipote di Candeloro, Rita Galeano, commentando un post su Facebook dedicato dal consigliere comunale Raffaele Andrea Pisani alle vittime dell’alluvione: «Era il nonno paterno di mia madre, che venne colpito dalla furia delle acque mentre lavorava in località "Angelaro". Il corpo non venne mai ritrovato. Sua madre, ancora in vita, recatasi qualche giorno dopo sul posto, alla vista dello sconquasso, divenne muta...».

Gli ultimi liutai

Quel pomeriggio di 87 anni fa l’Ancinale si portò via anche una tradizione d’arte e due dei suoi protagonisti: Bruno Pisani e la figlia Concetta. I Pisani furono, almeno per quanto se ne sa, gli ultimi costruttori di Serra San Bruno del modello di chitarra battente detto, appunto, serrese. Si tratta di chitarre a fondo piatto con quattro corde e un terzino che ancora oggi vengono costruite da diversi liutai in Calabria, ma non più nel paese da cui prendono il nome. La loro vicenda la si può leggere nel libro “A catarra dô vinu. I suonatori di chitarra battente delle Serre calabresi” di Valentino Santagati e Anna C. Villani. Dopo aver indagato per anni le vicende di suonatori e costruttori di strumenti della tradizione, Santagati spiega che Bruno Pisani, figlio del liutaio Agostino, andava alle fiere con la moglie e la figlia e in tre arrivavano a caricarsi addosso quasi venti tra chitarre e chitarrini battenti. Attorno a loro si formavano sempre dei capannelli: si narra che la figlia Concettina fosse, oltre che esperta suonatrice, anche bellissima, e dopo che eseguiva dei mini-concerti i loro strumenti andassero a ruba.

Morti abbracciati

Nei documenti ritrovati, che riportano anche la situazione familiare delle vittime, viene fatta menzione anche di Biagio Pupo. Si specifica che «ha lasciato, oltre le figlie che con lui convivevano, altri due figli coniugati che formavano famiglia a parte». Una sua discendente, Rosalba Calabretta, ha raccontato su Facebook un risvolto struggente: «Era il bisnonno di mio padre, nonno di mia nonna paterna Pupo Rosarina, fu ritrovato in località San Rocco abbracciato con una ragazza affetta da poliomielite, purtroppo non so chi era, ma comunque mia nonna raccontava che a causa del suo problema la ragazza non riuscì a salire i gradini sul corso dove lei in quel momento si trovava e la furia dell'acqua se la portò via, poi forse incontratosi con lui cercarono di aiutarsi, evidentemente invano».

“Mastranza di la Serra”

Le storie dell’alluvione, come si può facilmente immaginare, non riguardano solo i morti ma anche chi sopravvisse e si ritrovò all’improvviso senza nulla. Erano sicuramente tanti gli alluvionati e tra loro c’era chi aveva nelle mani un’arte che rendeva i serresi noti in tutto il Sud. Salvatore Tripodi era noto, non a caso, come “lu prufissuri” ma non era un insegnante, bensì un ebanista e uno scultore del legno. Sharo Gambino ricorda che faceva tutto, dagli zoccoli e le scarpe ortopediche ai mobili di lusso, dai portali ai soffitti per le chiese. Restaurava e scolpiva statue di santi («fu lui – si legge in “Sull’Ancinale” – a intagliare sotto i nostri occhi il portale interno dell’Addolorata, ideato e disegnato da Giuseppe Maria Pisani jr.») e di lui ci restano testimonianze artistiche come gli altari di San Giovanni e San Giuseppe nella chiesa dell’Assunta, costruiti a 23 anni. Nell’archivio del Comune ci sono alcune commoventi lettere che la moglie, cremonese di origine, inviava, in bellissima calligrafia e perfetto italiano, alle autorità locali e provinciali. Il nubifragio aveva devastato la loro casa e soprattutto il laboratorio del marito. Avevano quattro figli e e stava per arrivare il quinto, ma si erano improvvisamente ritrovati senza tetto e senza neanche la possibilità di poter vivere dell’arte che “lu prufissuri” aveva nelle mani.

Il dolore di un nonno-padre

Le lettere che gli alluvionati rivolgono alle autorità in cerca di aiuto sono tutte commoventi, ma una delle più toccanti è quella che il 22 aprile 1936 scrive al Ministro dei lavori pubblici un uomo che abitava a pochi passi dalla chiesa Matrice, uno dei punti più colpiti. Ha 84 anni e porta già sulle spalle, oltre che il peso di una vita, il dolore di una tragedia: il figlio è morto in guerra, nel 1918, e lui è il tutore del nipotino, che ha perso pure la madre. L’anziano è l’unico ad occuparsene ma ora, spiega nella lettera, non ci riesce più, perché aveva solo quella «modesta casetta in via S. Biagio». L’acqua l’ha inondata buttando già una parete di due metri e distruggendo solaio e soffitto «in modo orribile». Si definisce un «povero vecchio senza appoggio di nessuno» e così si appella al ministro: «Eccellenza creda pure la condizione crudele che noi siamo rimasti che il vortice insidioso di quella tragica notte ci a ridotto sull’astrico infelici lasciandoci pure senza vestiti, che il nostro stato fa pietà».

L’arciprete, il lutto collettivo e i danni alla chiesa

Che ai compaesani di Mastro Bruno Pelaggi non sia mai mancato il senso dell’ironia lo testimoniano anche i versi di una canzone popolare dedicata proprio a “lu vintunu di novembri”, anche questa una testimonianza unica nel suo genere che, forse, oggi sarebbe impensabile a contorno di una tragedia di simile portata. Ma al pari del sarcasmo non difettava ai serresi neanche il senso di comunità che, in quella occasione, emerse in un partecipato lutto collettivo. Se nell’anniversario dell’alluvione furono eccezionalmente riunite nella chiesa Matrice le statue dei tre protettori, già un mese dopo (il 20 dicembre 1936) l’arciprete Vincenzo Regio comunicava alle autorità cittadine che le vittime del nubifragio sarebbero state commemorate con una «mesta cerimonia» in chiesa seguita al «corteo» che sarebbe partito «dalla Casa Comunale alle 9,30 precise». Lo stesso parroco, riporta Gambino, aveva già annunciato una scomunica contro potenziali sciacalli pronti eventualmente a saccheggiare una popolazione devastata, ma non si era limitato a questo. Un altro documento della fine del 1935 testimonia che Regio aveva messo di tasca propria i soldi per alcune riparazioni urgenti alla “sua” chiesa. I danni alla Matrice, secondo quanto comunica il podestà alla Prefettura chiedendo un sussidio, ammontavano a circa 12mila lire e il parroco «è andato incontro ai lavori urgenti ed indispensabili (niente abbellimenti), contraendo personalmente dei debiti presso privati». Vale la pena lasciare spazio alla descrizione di quanto era successo il 21-22 novembre: «Le copiose acque hanno invaso il tempio, sollevandosi fino all’altezza di circa due metri come risulta dalle tracce rimaste, travolgendo arredi, paramenti sacri e perfino qualche mobile: alcuni sono stati portati via dalla violenza delle acque medesime, altri ridotti in pessime condizioni». La chiesa era rimasta chiusa «per molto tempo» e il podestà spiega che è solo grazie al sacerdote se è stata riaperta per le feste natalizie «con gran soddisfazione dei fedeli». Rimaneva da riparare «soltanto la parte della sagrestia con i relativi armadi in legno castagno e noce». Ma i serresi, devastati dall’alluvione, «non possono contribuire» e il Comune «potrà dare solo qualche poco di legname». Chi e in che misura si sia adoperato per dare una mano a una comunità in ginocchio è un ulteriore capitolo di questa storia che proveremo a raccontare successivamente.

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