Nonostante Michelangelo Frammartino sia cresciuto a Milano, il suo legame con il Sud sembra diventare sempre più forte. Pare essere un'attrazione istintiva, la sua, un richiamo che forse ha poco a che vedere con le sue origini. Certo, Caulonia è il paese dei suoi genitori, il luogo dove il regista ha trascorso le sue estati da ragazzo e anche “Le quattro volte”, film pluripremiato, è stato girato in Calabria. Ma non sono, non possono essere state solo le sue radici a fargli volgere di nuovo lo sguardo verso questa parte di mondo.
«Sono nato e vissuto a Milano – ha infatti spiegato ad Alberto Alfredo Tristano de Linkiesta – lì mi sono formato, ma ritorno ogni volta a Sud perché sono affascinato da come il paesaggio sviluppa un effetto domino qui, dove un'altezza produce una caduta, dove agiscono resistenze di diverso tipo, dove si mostra con evidenza e anche violenza la forza di gravità». Frammartino parte sempre dalla realtà, emerge un suo continuo “ritorno” alle categorie elementari – e spietate, anche – della natura. Così ha fatto nel lungometraggio in cui ha raccontato «le quattro vite successive, incastrate l'una dietro l'altra» che – richiamando una frase attribuita a Pitagora – abitano ogni uomo, e così sta facendo con il suo nuovo lavoro, “Alberi”. Si tratta di una cineinstallazione, un filmato – che presto verrà sviluppato come opera prettamente cinematografica – proiettato in loop per 24 circa minuti, che ha avuto la sua prima al Moma di New York e che era visibile, fino all'8 dicembre scorso, al cinema Manzoni di Milano. Dopo il pastore che crede al potere terapeutico della polvere che si forma sul pavimento di una chiesa, dopo il capretto che nasce, “perde” il gregge e trova riparo sotto un grande albero, dopo il culto pagano della festa “della Pita” di Alessandria del Carretto, dopo la trasformazione del legno in carbone, il regista ha scelto di raccontare un rito ancestrale, una tradizione antichissima e pressoché sconosciuta di cui indaga la natura profonda. A catturare il suo “occhio” è il culto arboreo dei romiti, gli “uomini-albero” che, a Satriano di Lucania, durante il carnevale, vanno bussando per le case in cerca di soldi o di un po' di cibo. Di questi uomini, interamente ricoperti di edera e pungitopo, che pare affondino le loro radici in un tempo antichissimo, si era quasi persa la memoria, ma il culto è ricomparso di recente e Frammartino ha deciso di documentarlo. Lo ha fatto alla sua maniera, creando un'opera che assomiglia a un documentario etnografico, senza esserlo. Non è nemmeno videoarte, anche se ci si avvicina molto. È cinema, anche se fatto con stili e tempi che appaiono sconosciuti ai più. Certamente incatalogabile, difficilmente restringibile in categorie standard e definizioni critiche, ma è cinema. Tra Antonioni e De Seta, tra realismo e magia, tra natura e misticismo, Frammartino “usa” il travestimento per produrre una destrutturazione in cui è lo sfondo a diventare protagonista. Riesce a mettere in moto un meccanismo che, in sostanza, dà vita all'inanimato. Dà grande importanza all'immagine, alla visualità, al luogo, molto più che alla sceneggiatura, che convenzionalmente è la mappa da seguire nella tessitura del film. Frammartino rinuncia a dare centralità all'uomo. Parte dall'esterno e poi entra dentro, cerca sempre l'anima, che si tratti di uomini, di animali, di alberi, di luoghi, e così finisce per mettere in discussione il significato tradizionale di finzione costruita, di messinscena. Il suo cinema non è omologato, guarda sempre alla minoranza, e questa, per lui, è anche una scelta politica.
(articolo pubblicato sul numero 131 del Corriere della Calabria)