Giovedì, 12 Febbraio 2015 08:03

‘Jiuòvi di lardaruolu cu’ non ava carni si ‘mpigna lu figghiolu’

Scritto da Salvatore Costa
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“Jiuòvi di lardaruolu cu’ non ava carni si ‘mpigna lu figghiolu”. Con questo adagio cominciavano a Serra San Bruno i festeggiamenti per il Carnevale, festa che nel tempo ha perso le caratteristiche popolari fino a diventare oggi ormai un mero svago per i bambini, che in questi tre giorni fanno sfoggio dei loro costumini da Peppa Pig o Jack Sparrow.

Ovviamente non è sempre stato così: il Carnevale affonda le sue radici nei riti della morte e della resurrezione, nei quali la tradizione cattolica si è innestata su quella pagana.

Scrive Vincenzo Dorsa nel 1879: «Era in uso in certi paesi della Calabria celebrare la commemorazione dei morti nel mese di Febbraio, il mese della purificazione e dell’espiazione. […] Tanto i greci quanto i latini in questi giorni facevano offerte di cibi e vini. Credevano che i trapassati uscissero dalle loro dimore ansiosi di quelle vivande, compiuto il rito funebre davansi all’allegria consumando il giorno seguente in danze, canti, visite e banchetti fra parenti ed amici, per rafforzare gli affetti e godere della vita dinnanzi allo spettacolo della morte».

I calabresi fino alla metà del Novecento conservavano ancora la memoria di questo costume antico, di quando i giorni di Carnevale si passavano in banchetti, danze, maschere e farse scherzose che molto spesso irridevano i potenti e i vessatori del popolo. Per tre giorni, insomma, era consentito sbeffeggiare chiunque.

Nei banchetti di cui scrive Dorsa, il re della tavola era il maiale, che nella cucina calabrese ricopriva, e ricopre ancora oggi, grande importanza, grazie soprattutto al forte contenuto proteico e calorico e alla possibilità di stiparlo in magazzini sotto forma di salumi, grasso, carne salata e quant’altro.

Molto spesso veniva considerato addirittura alla stregua di un figlio. Riporta il dotto Abate Padula da Acri: «Miegliu è criscere ‘u puorcu ca ‘nu figliu, puru l’ammazzi e ti unti lu mussu». Il proverbio rientrava proprio nell’esigenza dettata dal bisogno di nutrirsi in maniera decente almeno una volta l’anno, in maniera che fosse garantita a tutti la possibilità di saziarsi con la carne.

Giovedì grasso, giovedì “di lardaluoru”, apriva dunque i festeggiamenti carnevaleschi, ma non tutte le famiglie potevano permettersi il lusso di saziarsi con i deliziosi manicaretti a base di maiale, quindi a chi era più disperato veniva suggerito: «Mpìgnati lu figghiuolu». Ovvero: in cambio di una razione abbondante di carne da consumare nella propria famiglia durante i giorni della festa, si mandava il proprio figlio a fare il garzone da un pastore o da un artigiano che accettava il baratto. Il giovane doveva così lavorare per quaranta giorni – tanto quanto dura la Quaresima – al servizio del mastro. Il tutto chiaramente a titolo quasi completamente gratuito, ricevendo come unico compenso un po’ di carne. Finita la festa, il martedì grasso successivo, quello che restava veniva conservato fino al termine della Quaresima.

A Serra il martedì grasso è detto “marti di l’azata”, che probabilmente deriva dal dialetto “lazari”, ossia conservare. Secondo quanto tramandato attraverso la memoria orale, le polpette non consumate durante la giornata “di lu marti di l’azata” venivano conservate nello strutto per essere poi messe in tavola durante i pasti di sabato o domenica di Pasqua.

Negli ultimi giorni di Carnevale imperavano le farse, in alcuni paesi della Calabria dette anche “parti di carnilivari”. Molto poveri erano i costumi: un vecchio vestito, una sottana, un cappellaccio o un fazzoletto. Tutto insomma si dimostrava buono a travestirsi per rappresentare il personaggio preso di mira. I “mastri” satireggiavano i contadini o i borghesi e viceversa, il tutto innaffiato da tanto buon vino. I notabili del paese chiudevano tutti e due gli occhi su canzonature che, in altri periodi dell’anno, non sarebbero certo passate impunite. Del resto il popolo tranquillo e ossequioso delle leggi, laborioso e povero, mal retribuito e peggio nutrito, affogava semplicemente nel vino i tristi pensieri e cercava di divertirsi prendendosi la rivincita deridendo, almeno per un giorno, chi l’opprimeva, pronto a fare penitenza il mercoledì delle ceneri. «Eppure, a chi ben riguardi, quanto è spesso forzata quell’allegria; com’è forzato quel riso! E forse quel pulcinella che fa ridere i passanti coi suoi frizzi, si prepara domani a partire per l’America in cerca di pane e di nuovi dolori».

Come nel resto della Calabria, anche a Serra venivano composte le farse carnevalesche e qui vennero chiamate “stuori”, che nella cittadina assunsero poi carattere poetico grazie a mastro Bruno Pelaggi.

A volte, fortunatamente, venivano addirittura scritte e raccolte in dei quaderni. Gli scritti – di cui di seguito vi proponiamo uno stralcio – sono stati raccolti tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo scorso a Serra San Bruno, «logori, sporchi, di calligrafia diversa e in certi luoghi sbiadita ed inintelligibile». I personaggi della farsa sono Massaru, Massara, le figlie Parma e Perna, i fratelli ‘Ntuoni e Brunu, Magaru, Notaru e Vecchia.

MAGO:

           Stipulati su’ già li matrimoni,

           Mo ‘nci vuonnu li suoni e li ballati

           Ora su’ accurdati sti strumienti

           Mo chi siti cuntienti tutti pari,

           Sunati mu esci ccà Carnilivari.

 

CARNILIVARI:

            Io su Carnilivari

            Cu’ avi l’occhi già mi vidi,

            Sugnu amicu d’i’ quatrari

            Si a la casa ‘nd’ànnu pili.

            Non poi tutti cuntintari

            Ca ‘nci vonnu assai zicchini

            Mo riditi tutti pari

            Niesci Brunu ad abballari.

 

BRUNU:

             L’attuccari m’è crisciutu

             Pimmu sugnu maritatu,

             Non m’importa ca fui mutu

             Nè ca stietti assai ligatu.

             Mo ‘nd’avanzi cacciu sucu

             Ca mi truovu canijatu

             Si mi vena mu m’affucu,

             Parma mia dunami fhiatu

 

Foto tratta da “Pollino” di Guy Jaumotte – collana Qualecultura Jaca Book, 1993

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