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Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
SERRA SAN BRUNO Nello studiolo c’è poca luce. Il volto di dom Jacques Dupont si illumina a intermittenza mentre parla di povertà, di amore, di fragilità, di bellezza. Pesa ogni parola, ma ha la passione che non si immaginerebbe in un eremita. L'anno appena iniziato ha un'importanza particolare. Ci si appresta a celebrare i cinquecento anni dell’autorizzazione al culto di San Bruno e del ritorno dei certosini a Serra, dopo che dal 1192 al 1514 l’abbazia era passata sotto la regola cistercense. Al priore abbiamo chiesto com’è, nel 2014, la vita in Certosa, e come ci si appresta a celebrare questi anniversari nel monastero. «La vita del monaco – spiega dom Jacques – è definita dalla liturgia, che è scandita da ricorrenze. Non le viviamo come feste mondane, ma toccano la nostra esistenza. Queste ricorrenze ci portano a ringraziare Dio per questa realtà che è viva ancora oggi».
Il 19 luglio 1514 papa Leone X autorizzò il culto di San Bruno. Pochi anni prima erano stati trovati i resti del santo di Colonia e del suo successore, Lanuino. Quelle reliquie furono portate in processione da numerosissimi serresi. Il legame tra il monastero e la comunità rimane intatto? L'isteria della modernità ha cambiato questo rapporto?
«Nel dna di un serrese c’è sicuramente San Bruno, e questa per noi è una gioia. Un tempo la Certosa era vista come luogo che poteva dare aiuto, lavoro. Ora invece è un piccolo monastero senza grandi risorse. L’interazione c’è sempre, anche se discreta, specie con chi ha più bisogno. C’è un aiuto reciproco: questo viene visto come un luogo di preghiera e di conforto, la gente capisce il nostro bisogno di silenzio e lo rispetta».
Tanti hanno trovato nella Certosa un punto di riferimento spirituale. Molti vengono a confessarsi con voi. Ciò vi permette di avere una visione intima, “privilegiata”, delle virtù e delle debolezze dell'uomo moderno? È questa una “finestra” sull'umanità di oggi?
«È proprio così. Incontriamo le persone nella loro debolezza, nella povertà interiore. Questo ci fa sentire più responsabili nella nostra vocazione. Non cercano soluzioni da noi, noi non giudichiamo mai, e loro sanno che il monaco conosce abbastanza il male da non farli sentire giudicati».
Nel 1521 c'erano 195 Certose in tutta Europa. Nel 1810 l’Ordine era quasi scomparso. Poi c’è stata una lenta ripresa. Qual è la situazione attuale? È vero che anche nella Certosa di Serra il numero di monaci si è drasticamente ridotto?
«C’è un cambiamento forte di mentalità, l’uomo ha un po’ messo Dio in un angolo. L’Ordine ha capito che non si poteva rimanere “chiusi” in Europa, e così, dagli anni 60, sono nati monasteri negli Usa prima, in Sudamerica e Corea del Sud poi. Questa scelta ha prodotto un indebolimento in Europa, ma era necessaria. Qui da noi, ad esempio, non si fa più il noviziato».
L'altra ricorrenza del 2014 è il quinto centenario del ritorno dei certosini a Serra, dopo il lungo periodo cistercense. Circolano molte, incerte ricostruzioni circa le motivazioni del passaggio dalla vita eremitica a quella cenobitica.
«Qui i primi eremiti avevano bisogno di un appoggio forte, e a quei tempi non avevano il sostegno dell’Ordine, perché troppo lontani: è verosimile che abbiano cercato questo appoggio nelle abbazie cistercensi più vicine».
Dopo Giovanni Paolo II, nel 1984, anche Benedetto XVI ha voluto farvi visita. Pare proprio che Ratzinger sia rimasto stregato dalla Certosa. C'è un interesse che va oltre la spiritualità e riguarda anche il suo essere un teologo?
«In Ratzinger è difficile separare le due cose: c’è un’osmosi tra la dimensione intellettuale e la preghiera. È un monaco, di fatto. Ogni pontefice avverte l’importanza della preghiera, da questo deriva l’interesse per una vita come la nostra. Non è facile, comunque, per noi, sentire papa Francesco che dice: “Dobbiamo uscire, non chiuderci”. Ma se si approfondisce, lui dice anche: “Pregate per me. La vera preghiera è uscire da se stessi”. Ed è questo quello che facciamo noi. Io trovo in lui una spinta nuova all’intercessione. La contemplazione in cui non sono presenti gli altri non è cristiana. Si deve lottare nella preghiera».
Questo è anche il ventesimo anno di attività del Museo della Certosa. Coniugare la curiosità del turista con le regole della clausura è possibile?
«È un compromesso, in positivo. Non è espositivo, ma di partecipazione spirituale. Per noi è uno strumento per comunicare: un luogo di incontro e di scambio. Rimane una struttura con pochi mezzi, e per questo vanno ringraziati quanti vi si dedicano con impegno».
Ancora oggi è proibito alle donne entrare in Certosa. Cambierà mai questa regola?
«A titolo personale, penso faccia parte dei cambiamenti che oggi non si possono evitare. Sono fiducioso che qualcosa cambierà, oggi c’è già più apertura rispetto a 30 anni fa, anche se siamo lenti. Io mi batterò per questo».
Cosa significa essere certosini oggi? Si può davvero abbracciare il silenzio e la preghiera e sentirsi in comunione col mondo?
«La preghiera oggi è ancora più importante, perché l’animo dell’uomo è fragile, ferito. Il silenzio e la solitudine non sono un fine, ma un mezzo. Ma non bisogna assolutizzare la clausura: oggi non è come 40 anni fa, il certosino in qualche modo comunica, i muri si superano. Ma c’è un divario più grande, perché pochi sanno cosa siamo davvero».
Che cos'è, per lei, la bellezza?
«San Bruno dice di essere stato sedotto dalla bellezza di Dio. Senza amore per la bellezza la nostra vita mancherebbe di qualcosa. La bellezza è legata alla santità, genera amore. La nostra vita è “contemplativa”, ma è importante guardare con gli occhi del cuore, che vedono l’interiorità, vedono sofferenza, ma vedono sempre il bello. Perché non è la sofferenza da ammirare, ma la persona che soffre».
foto Salvatore Costa
(articolo pubblicato sul numero 133 del Corriere della Calabria)
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