Sabato, 18 Maggio 2013 13:30

Arrivaru l'artisti

Scritto da Angelo De Luca
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mini cariatiL’aria a festa: era quello che ci voleva. Sì, occorreva distrarsi dopo mesi passati a patire freddo, incomprensioni e solite discussioni chiusi al caldo di una stufa a pellet sempre accesa. E a ricordarci di quanto il letargo fosse ormai agli sgoccioli ci avevano pensato quei "bravi ragazzi" vestiti da testa di capra. Sì, bisognava uscire fuori, ritornare per le strade e mostrare il volto vero del “Brigante”. Sì, ne avevamo bisogno. Avevamo bisogno di incontrare la nostra Calabria, oggi più che mai, oggi più di ieri. Per lunghi tratti della nostra avventura ci siamo sentiti invincibili, domi. Appagati. Invece abbiamo scoperto per l’ennesima volta che è davvero il silenzio a fare paura. Silenzio nonostante le nostre grida, per l’Alaco innanzitutto, divenuto ormai la nostra ragione di vita. Silenzio. Come quel silenzio che non ti dà pace tanto ti isola dal mondo e dalle verità. Sì, avevamo bisogno di andare via per qualche giorno. Sì, dovevamo raggiungere quei compagni conosciuti e sconosciuti allo stesso momento. Perchè lo sapevamo che c'erano.

Sì avevamo bisogno di fare festa. Perchè lo sapevamo che qualcuno ci aspettava.

Ad aspettarci c’era il mare; guardando in alto un borgo di antichità medievale stuprato da persiane in alluminio bianco e balconi in muratura anni ’50 sconnessi dalla storia. In quegli anfratti tra passato e cattiva modernità l’odore del cibo, tra quelle viuzze a pietra e i gerani colorati dal sole, l’aroma delle “vrasciole” e delle salsicce. Gli odori si levavano via da ogni porta aperta allo straniero. Ulucci, con il suo solito fare da uomo di mondo, scende dalla macchina stiracchiandosi e spostandosi - giustamente dopo quasi 3 ore di viaggio - la mutanda dal culo. Dalla macchina, versatile come fosse un furgone cassonato, sbucano due grosse teste caricaturali: una signora bianca e un signore nero. Quei vecchi attorno al tavolo di un bar subito dopo la salita non capiscono cosa sta succedendo. “Pijja lu rullanti mannaia la Mado…”, grida Ulucci a qualcuno dei dieci compagni di viaggio. Insieme al rullante una grancassa, un paio di piatti, uno zuco, una lira, un organetto e persino una chitarra battente. “Arrivaru l’artisti - gridano da qualche parte giù di li - su chiji di la Serra”. Ci aspettavano, evidentemente. Avevamo ragione. Sapevano che qualcosa di diverso e strano sarebbe successo durante la festa di San Cataldo. Attorno ai “Briganti” un capannello di persone mai viste prima d’ora. Un gruppo di ragazzi porta con se qualche strumento diverso dai nostri. Uno di loro ha un clarinetto. “Vistimu li giganti, jamu, muvimundi!”. Parte la festa. La nostra e quella di Cariati.

E’ già mattina. E nonostante le ore piccole, siamo tutti pronti per animare un’altra giornata. La mia stanza è vuota, finalmente un po’ di pace dopo "una notte un po' concitata". Le stanze dell’alloggio sono arrangiate alla meglio. Pulite, certo, ma evidentemente utilizzate solo in estate. Ma dove saranno andati i “Briganti”? Da lontano sento voci, esco fuori e le seguo. Franco, arrivato da Milano solo pochi giorni prima, è in acqua a farsi una nuotata in un mare gelido nonostante i 35 gradi. Salvatore, Costa e Saverio sulla spiaggia a prendersi il sole. Tutti gli altri in paese in cerca di un caffè. “Dai, avvicinamundi all’appuntamentu”, dice qualcuno tra di noi. “Ma vui lu capiscistivu adduv’è stu puostu?”. “Si – dice sicuro di se Ulucci – vi puortu io”. Come da prassi, non curanti di divieti e folle umane, ci addentriamo nella fiera posizionata lungo una spiaggia sahariana, senza vegetazione e senza ombra. La chiesetta, dopo due o trecento metri di salami appesi, fumo e salsicce, è il nostro punto di arrivo. I giganti sono svestiti, il piazzale che ci accoglie è un via vai di belle cosce tipicamente locali vestite a festa e di maschi presi da caprette e galline da mostrare sul palco degli incanti. Si aspetta solo il Santo a mezzo busto. Dicono che arriverà verso l’una/una e mezza. La banda del paese, dopo due ore di processione sotto un sole ancora più torrido annuncia il suo arrivo. Il mezzo busto si gira verso la piazza. Saluta e entra al fresco della chiesetta mangiata dalla salsedine, accompagnato dai fedeli che si stupiscono davanti alla bellezza dei giganti. Parte il rullante. La gente balla con noi e noi con loro.

Ormai, dopo neanche 24 ore dal nostro arrivo in paese, anche i gatti sui torrioni hanno capito chi siamo. Chi siamo e, soprattutto, cosa siamo. Il borgo sulle nostre teste adesso è vuoto. E’ il momento giusto per salire e lasciare nella piazza bagatti e bagattelli. Stasera ci aspetta il delirio: è la gente che lo vuole e noi insieme a loro. Aspettiamo il tramonto, c’è davvero tanta allegria, genuina e tipicamente calabrese. Gli ultimi accordi agli strumenti, le luminarie blu che si accendono annunciando l’arrivo della sera. Chiunque può fare rumore insieme a noi. Un signore ha preso una bottiglia di birra vuota e un cucchiaino. Sergio dà inizio alle danze. Assieme a noi i ragazzi di ieri. Il clarinetto è davvero una bella novità! Tra le viuzze strette il rumore rimbomba vigoroso. La gente balla e si diverte. I bambini non hanno affatto paura. Dai bar spuntano i primi boccioni di vino rosso, segno che ogni bar per noi dovrà essere una tappa obbligata. Il vortice della passione folkloristica si fa incandescente, le mani sui rullanti sempre più veloci, i giganti sempre più impazziti, la gente sempre più felice, noi sempre meno stanchi. Il giro non finisce, continua. E continua pure il vino, con lo stomaco che adesso si fa più affamato e con l’animo che, al contrario, si rinvigorisce ad ogni “parapapunza”. E mentre San Cataldo finisce la sua festa con i fuochi che illuminano la baia, per noi tutto inizia da capo. Di nuovo, con più entusiasmo. Al mattino dopo ognuno parte per i cazzi suoi, con la certezza che c’è una Calabria che ci odia e una Calabria che ancora ci sta cercando. 

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