Sabato, 20 Luglio 2013 12:24

Eutanasia istituzionale. Il triste epilogo della Provincia di Vibo, tra inchieste e veleni

Scritto da Sergio Pelaia
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mini Arrivo_Ciclosi_in_ProvinciaIl capitolo finale, forse, lo scriverà il Parlamento, che sarà chiamato a discutere il disegno di legge costituzionale approvato dal governo Letta pochi giorni fa. Il grosso della trama, però, è ancora tutto da sviluppare, e un contributo corposo in questo senso potrebbe venire fuori anche dalle aule giudiziarie. A ogni modo la storia ventennale della Provincia di Vibo Valentia – che è tra quelle che l'esecutivo delle larghe intese vorrebbe tagliare – è densa di avvenimenti, non tutti proprio esaltanti, che hanno determinato, in buona parte, una sorte per cui l'eventuale soppressione potrebbe risultare come una sorta di eutanasia istituzionale, una morte indotta che però ha ben poco di dolce.
 
ROMANZO VENTENNALE
L'incipit è nel decreto dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il numero 253 del 6 marzo 1992. Il ghost writer però, il vero ispiratore – è noto – fu l'ex senatore democristiano Antonino Murmura. E un altro democristiano, l'allora ministro dell'Interno, Vincenzo Scotti,  assegnò, il 5 maggio 1992, al viceprefetto vicario della provincia di Cosenza, Alfonso Guido, il compito di portare concretamente a compimento l'istituzione del nuovo ente. Ci volle un po', ma ne valse la pena: il primo consiglio provinciale si insediò l'1 giugno 1995. Sempre democristiano – poi confluito nella Margherita – era anche il primo presidente, Enzo Romeo, che ha guidato una coalizione di centrosinistra sino al 1999. «Da subito – si legge sul sito istituzionale dell'ente – l'amministrazione Romeo si caratterizzò per uno straordinario entusiasmo, e una voglia di fare instancabile fece di quella giunta un gruppo di persone unite da un obiettivo comune: avviare lo sviluppo del territorio vibonese». Fatte salve le buone intenzioni, questo sviluppo, in vent'anni di giunte di centrosinistra, non si è mai visto. A meno che non ci si riferisca alle centinaia di assunzioni – tutte col requisito della precarietà, e per larga parte frutto di dinamiche clientelari – che in quegli anni, e in particolar modo nel decennio successivo, fecero della Provincia un moloch costosissimo ma infallibile nella gestione scientifica del consenso. 
In quest'ottica, un segno parecchio tangibile del suo passaggio dalle stanze del potere vibonese lo ha lasciato Ottavio Gaetano Bruni, oggi capogruppo dell'Udc in consiglio regionale, dal 1999 al 2008 ras incontrastato dell'amministrazione provinciale. Con lui il centrosinistra in provincia diventò una gioiosa macchina da guerra elettorale. Non solo: nei suoi due mandati da presidente, Bruni è riuscito ad annichilire anche l'opposizione, che più volte è risultata essere solo la stampella di una maggioranza che, evidentemente, era più conveniente appoggiare tacitamente che contrastare apertamente. Una capacità, questa, che di certo non ha ereditato il successore di Bruni, Francesco De Nisi (Pd) che, pur avendo vinto le elezioni del 2008 con largo margine, ha finito per soccombere di fronte alle defezioni di suoi ex seguaci stregati dalle sirene scopellitiane. Nonostante gli scontri durissimi a mezzo stampa e gli interminabili rimpalli di responsabilità, però, una cosa in comune Bruni e De Nisi ce l'hanno: entrambi si sono dimessi da presidente prima della scadenza naturale del mandato, entrambi con lo scopo di inseguire uno scranno parlamentare, che alla fine entrambi hanno clamorosamente mancato. Di più: nell'epilogo dell'era De Nisi, ci sono due circostanze che non fanno che peggiorare un quadro già abbastanza deprimente: primo, la bocciatura del bilancio da parte del Consiglio, le dimissioni del presidente e il conseguente commissariamento; secondo, un'inchiesta giudiziaria che sta rivelando situazioni che neanche il più creativo dei dietrologi avrebbe mai immaginato. Non senza una coda di veleni e gravi accuse rivolte, per ultimo, anche all'attuale commissario straordinario, il prefetto Mario Ciclosi. 
 
DE NISI VS CICLOSI 
Partiamo dalla fine. Il Corriere della Calabria è in grado di anticipare i contenuti di un esposto al vetriolo che l'ex presidente De Nisi ha inviato al ministero dell'Interno e alla Prefettura di Vibo. «Sin dall’insediamento del commissario straordinario dott. Mario Ciclosi è parso allo scrivente – scrive l'ex presidente, noto, finora, per la sua scarsa loquacità – la netta volontà del commissario nominato di prendere le distanze dall’Amministrazione democraticamente eletta che aveva retto l’Ente sino a pochi giorni prima. Ciò, appare evidente consultando il sito istituzionale dell’Ente dove non si perde occasione di celebrare pretesi salvifici interventi sulle finanze dell’Ente che sarebbe stato portato sull’orlo del baratro dagli amministratori». Il tono della premessa è già di per sé eloquente, ma il seguito è esplosivo: «Artefice di questo piccolo miracolo che sarebbe stato compiuto dal prefetto a riposo Ciclosi – scrive ancora De Nisi – è un dirigente nominato alla guida dell’Area finanziaria e di altri settori dal commissario». L'ex presidente fa il nome di Domenico Macrì, che in precedenza aveva ricoperto «l’incarico marginale» di dirigente del settore agricoltura, mentre adesso sarebbe divenuto «il dominus» della Provincia. «Orbene, non si comprende come la figura del dott. Macrì – è l'accusa di De Nisi – notoriamente conosciuta nel Vibonese in quanto sarebbe vicina ad ambienti 'ndranghetistici e massonici, e nonostante parrebbe la scarsissima competenza in materia finanziaria, possa aver assunto con la guida di un prefetto della Repubblica un ruolo cosi importante che comporta funzioni delicate e rapporti con migliaia di cittadini e imprese». E non è tutto: «Nonostante nei giorni trascorsi, la stampa locale ha ampiamente riportato nelle cronache giudiziarie dell’operazione “Libra” contro la cosca Mancuso e Tripodi i pretesi rapporti d’affari tra il dott. Macrì, dirigente provinciale, e la cosca Tripodi, l’Amministrazione provinciale di Vibo Valentia sembra interessata esclusivamente a costituirsi parte civile per piccole frodi in forniture che possano scaturire dall’operazione». Il nome di Macrì compare nell'ordinanza di custodia cautelare che ha colpito i clan di Vibo Marina, vergata dal gip di Catanzaro, in merito ad alcuni suoi rapporti d'affari, relativi al bar romano “ritrovo La Dolce Vita”, con Francesco Comerci – la circostanza si desume dalle dichiarazioni rese da quest'ultimo –, titolare della “Edil sud”, ritenuto dagli inquirenti l'interfaccia imprenditoriale dei Tripodi. Il dirigente pubblico di cui parla De Nisi, però, al momento non risulta iscritto nel registro degli indagati. A rilevarlo è stato il suo avvocato, Nicola Minasi, che, replicando ad un articolo apparso sulla Gazzetta del Sud, ha dichiarato che il suo assistito «allo stato non è stato mai destinatario di alcun atto né di polizia, né giudiziario, che rappresentasse un suo coinvolgimento con personaggi accusati o comunque imputati di reati riconducibili al disposto di cui all'articolo 416-bis del codice penale. Va ancora sottolineato – aggiunge il legale di Macrì – come la richiesta cessione dell'esercizio commerciale adibito a bar (…) è avvenuta mediante rogito notarile con compravendita per il prezzo di euro 180mila».
 
L'ODORE DEI SOLDI
La gestione finanziaria di un ente come la Provincia vibonese è cosa delicata. Proprio l'ufficio che secondo l'ex presidente sarebbe stato affidato a Macrì, infatti, è al centro dell'inchiesta “Odor lucri”, partita da un ammanco di circa 1,3 milioni di euro – per cui sono finiti in carcere, con l'accusa di peculato e falso, la dipendente Mirella Currò e il marito, Baldassarre Bruzzano – e allargatasi a macchia d'olio su diverse attività della Provincia. 
Il 12 settembre dell'anno scorso, di buon mattino, De Nisi si reca in Procura. Ne scaturisce una denuncia dell'allora presidente su un “buco” milionario nelle casse dell'ente. I finanzieri del nucleo di Polizia tributaria si precipitano negli uffici e cominciano a  passare al setaccio tutti gli atti del settore Affari finanziari: ci mettono ben poco a capire che, attraverso presunti artifici e contabili e con una girandola di mandati di pagamento molto sospetti, effettuati tra il 2009 e il 2011, la Currò avrebbe destinato fondi della Provincia al marito e a due nipoti. Si parla anche di fondi residui che in precedenza erano destinati a interventi post alluvione del 2006. Il pm Michele Sirgiovanni comincia così a indagare sui documenti sequestrati dagli uomini del colonnello Michele Di Nunno. La dipendente, che si era già dimessa prima della denuncia di De Nisi – a cui sono stati sequestrati, su disposizione del gip, una lussuosa villa di tre piani, due auto, una moto, disponibilità bancarie, assegni e due imbarcazioni – sostiene di aver fatto tutto da sola. La procura guidata da Mario Spagnuolo però vuole vederci chiaro: c'è da capire come sia stato possibile che nessuno, firmando gli atti, si sia accorto dell'ammanco, e come nessuno abbia controllato l'operato della Currò. Finiscono così nel registro degli indagati anche dirigenti ed ex dirigenti. Alla fine il Gup, su richiesta della Procura, dispone il giudizio immediato per la Currò e Bruzzano, per le loro parenti Valentina Macrì e Maria Menna, per l’ex direttore generale Ulderico Petrolo, per il segretario generale Francesco Marziali, per i dirigenti Armanda De Sossi, Antonio Vinci e Fortunato Sicari. Sei dei nove, imputati a vario titolo per falso e peculato, hanno chiesto il rito abbreviato. Intanto si muove anche la Procura generale della Corte dei conti per una ipotesi di danno erariale. 
Ma l'odore dei soldi pubblici gestiti allegramente conduce gli investigatori anche su altre piste: si comincia ad indagare sugli appalti, un settore corposo e complesso su cui la Procura sta lavorando da mesi, che intanto ha già portato alla scoperta di alcune procedure sospette, come quella che riguarda arredi e traslochi che, secondo i pm, in un caso potrebbe aver procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale a una ditta di cui sarebbe titolare la moglie di un ex consigliere provinciale. Ed è anche l'intera assemblea provinciale, per non farsi mancare nulla, a finire nel ciclone per un altro troncone d'indagine, riguardante le spese dei gruppi consiliari. Si parla di fondi non dovuti, tra cui quelli destinati a scopi sociali e all'antiracket, per una cifra che si aggira attorno ai 100mila euro. Risultato: vengono indagati – a vario titolo, per falso e peculato – due funzionari (già indagati per il “buco”), l'ex presidente, 7 ex assessori e 23 ex consiglieri. Per la cronaca, oggi i dipendenti sono in stato d'agitazione perché non ricevono lo stipendio da due mesi. Non male per una Provincia che, dalla nascita alla soppressione, è stata uno strumento tanto efficace per la conservazione del potere di chi l'ha gestita, quanto inconsistente per un territorio soffocato da emergenze sempre più drammatiche.
 
 
Pubblicato sul numero 108 de 'Il Corriere della Calabria'

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