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Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
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“La giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”, in programma per mercoledì nella cittadina della Certosa, rappresenta un appuntamento importante, per continuare a celebrare il ricordo di uomini e donne che non hanno abbassato la testa, che non hanno voluto girarsi dall’altra parte. Rappresenta, soprattutto, l’occasione per perpetuare la memoria di quanti hanno deposto la longanesiana bandiera del “tengo famiglia”, per combattere, anche, per chi quella bandiera ha voluto tenerla ben stretta. Tuttavia, le manifestazioni come quella di mercoledì, non possono essere appannaggio di quelli che Sciascia definiva i “professionisti dell’antimafia”. Per tale motivo, è necessario avviare una serie di constatazioni e di considerazioni destinate ad andare al di là di una riflessione di carattere ordinario. La virulenza e l’ampiezza dell’attacco, sferrato dalla criminalità, non di rado, ha indotto gli esponenti politici ad aprire tavoli di confronto, a svolgere consigli comunali aperti, ad organizzare manifestazioni e fiaccolate. Il tutto, nell’ottica di sensibilizzare un’opinione pubblica, spesso, restia a spendersi in prima persona. Non v’è dubbio, che tali iniziative possano svolgere un’importante funzione pedagogica. Tuttavia, per contrastare un fenomeno è necessario comprenderlo in tutte le sue sfumature ed accezioni. Prima di procedere ad un’accurata disanima del fenomeno sarebbe, quindi, opportuno individuare la tipologia umana che lo anima e lo produce. In altri termini, sarebbe necessario porre un interrogativo: “chi è il mafioso?”. Nell’oleografia popolare, il malavitoso può assumere le vesti del bandito o del brigante che, quasi con fare romantico, armato di coppola e doppietta, assiepato dietro qualche albero di alto fusto, lava col sangue le sue vendette. Un tale stereotipo, però, per quanto suggestivo non aiuta a tratteggiare correttamente i contorni di un fenomeno, le cui manifestazioni assumono un carattere tutt’altro che individuale. Ricorrendo all’ausilio di un noto dizionario della lingua italiana, potremmo “scoprire” che, dietro al temine mafioso si cela in realtà: “il componente di un’associazione segreta di persone che si dà aiuto reciproco e che per il proprio interesse é pronto a disprezzare ed a calpestare la legge e la morale”. A questo punto, i contorni, per quanto meglio definiti, possono indurre in errore, poiché, se il mafioso è un individuo che mette in atto azioni illegali per raggiungere il proprio fine, non si può non rilevare come tali atteggiamenti, spesso, permeino settori che dovrebbero esserne del tutto immuni, a partire dal mondo politico. Quante volte, infatti, la classe politica, in questa nostra regione, approfittando della posizione e della funzione che occupa, disprezza e calpesta quella legge e quella morale che dovrebbe essere alla base del vivere civile? Se quindi, per mafioso, intendiamo, non solo gli atti che presuppongono violenza fisica, ma anche quelli caratterizzati dalla sopraffazione, dalla discriminazione, dal sopruso, il quadro diviene molto più complesso ed affollato. Se è vero come è vero, che, incendiare un automobile, devastare un pubblico esercizio, esplodere colpi d’arma da fuoco contro chiunque può essere considerato l’inequivocabile indizio di un comportamento mafioso, è altrettanto vero che, più subdoli e non meno criminali mezzi di pressione possono essere esercitati in maniera differente. Non è forse un atteggiamento “mafioso”, in quanto prevaricatore, stravolgere una graduatoria, falsare un concorso, indirizzare un appalto, ai danni della stragrande maggioranza dei cittadini? Non è forse un atteggiamento “mafioso”, in quanto immorale, distribuire incarichi, prebende e regalie ai danni della collettività? Non è forse un atteggiamento “mafioso”, in quanto vessatorio, esercitare pressioni e ricatti per estorcere consensi durante le competizioni elettorali? Non è forse un atteggiamento “mafioso”, in quanto illegale, chiedere voti in cambio di false promesse o favori personali che poi è la comunità a dover pagare? Purtroppo, si potrebbe continuare a iosa, visto che ciò che manca non sono gli esempi negativi, bensì le pubbliche virtù. Tali “vizi” o, forse come li avrebbe definiti un frenologo, tare antropologiche coincidono con una forma mentis che non può, purtroppo, mutare con una fiaccolata o con un convegno più o meno pomposo. Quale allora la strategia, la strada da intraprendere e seguire per debellare quello che, altrimenti, rischia di configurarsi come un fenomeno sociale? Partendo dalla banale considerazione che in tali campi non vi sono ricette miracolose o salvifiche si potrebbe, ad esempio, cercare di sensibilizzare o educare l’opinione pubblica con l’esempio. La classe politica, quale espressione della parte più elevata della società, dovrebbe avere il compito e la funzione di restituire dignità anziché toglierla, dovrebbe tutelare i diritti anziché calpestarli, dovrebbe svolgere le mansioni istituzionali in nome e per conto dell’intera comunità e non in funzione degli interessi del “clan” di riferimento. Certo, educare con l’esempio è difficile, poiché comporta sacrifici e scelte coraggiose, ma soprattutto, in molti casi, non aiuta a far comprendere la reale dimensione del potere che, come amava ripetere Talleyrand, “si misura con l’abuso che se ne fa”.
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