Una plebaglia arrogante e superstiziosa stipata in buie stamberghe riscaldate dall’alito del maiale e dalle feci della gallina o grufolante nelle strade e nelle piazze di un paese senza fogne, così lurido che la miscela di Laplace pompata a tutta forza dal veterinario Francesco Ferrara a stento riesce a disinfettare. Una massa informe, pavida e incosciente, gonfia d’istinti bestiali e vuote giaculatorie, ipocrita nelle sue lamentazioni, disperata nei suoi vizi, soffocata nelle spire squamose d’una presuntuosa ignoranza.

 Non c’è, nell’immagine di Serra e dei serresi tratteggiata dal medico condotto, Ufficiale sanitario comunale e più-che-sospetto mangiapreti Antonio Romano nella relazione su L’epidemia di morbillo in Serra San Bruno (1909), quella compassione e quell’afflato didascalico coi quali una ventina d’anni prima Carmelo Tucci rappresentava i serresi ai fanciulli della scuola elementare nel breve Cenno geografico-storico sul comune di Serra San Bruno: cittadini dignitosi, puliti, laboriosi e modesti pur nella totale rassegnazione alla più spietata miseria.

 E così pure paiono eclissate, nelle pagine di questa relazione deliberatamente sbilanciata verso l’invettiva, la fiducia nell’esistenza di una viva e presente «coscienza di popolo», da educare e coltivare, o la genuina simpatia con «gli stanchi, gli affaticati, gli oppressi» che avevano contraddistinto Malattie infettive e loro profilassi, l’opuscolo redatto da Romano nel 1906 e distribuito agli insegnanti affinché s’istruissero i giovani su come riconoscere e prevenire il morbillo, la scarlattina, l’infiammo, il tifo addominale, la dissenteria, il colera asiatico, la granulosa, il vaiolo arabo, la difterite e la tubercolosi, affezionatissime e spesso letali compagne di carbonai, segatori, scalpellini, tessitrici, puerpere.

Ne L’epidemia di morbillo la fiducia nel potere formativo e persuasivo della scuola lascia il posto all’amara constatazione della necessità della bajonetta, alla rabbia positivista e vagamente affettata dell’uomo di scienza costretto suo malgrado ad accreditare e perpetuare la bieca immagine dei suoi conterranei come “selvaggi d’Europa” e a scernere nella diffusione di questo morbo ancora in larga misura sconosciuto, ma certamente non grave, che dal primo maggio al 19 luglio 1909 aveva colpito 858 persone uccidendone 83, il segno di una bruciante sconfitta umana e professionale.

Perché sarebbe stato facile  -era stato fatto negli anni precedenti, a Serra come a Mongiana, in casi di scarlattina e vaiolo arabo- contrastare la malattia e confinarla nel ristretto spazio di una o due famiglie, se solo i serresi non avessero colpevolmente taciuto al loro medico, per timore della quarantena alla quale Romano li avrebbe inevitabilmente sottoposti, la russajna che già a febbraio li aveva presi. Colpevoli d’aver creduto alle universali virtù curative delle nespole e delle ciliegie, consegnandosi in questo modo alla dissenteria, al supplizio della merda; ma soprattutto colpevoli d’aver realizzato, nel giorno 22 maggio, il folle proposito di una processione in onore di San Rocco per impetrare la salute esponendo sugli usci i malati, i bambini, i deboli, trasformando così poche dozzine di casi in centinaia. Intorno alla metà di giugno Romano e gli altri due medici Giacomo Pisani e il neo assunto Giuseppe Tucci visitavano quotidianamente più di duecento malati ciascuno, nonostante la Provincia avesse ridotto i loro stipendi, costretti talvolta a registrare spaventose complicazioni.

A due bambine di via Anastasio e via Fulciniti erano comparse ulcere nere sulla mucosa interna della guancia che nonostante i lavaggi con nitrato d’argento e soluzione salicilica continuavano ad espandersi fino a quando, invasi palato e gengive e fatti gonfiare viso e collo, non avevano trascinato le bambine in un profondo coma e infine alla morte per cancrena della bocca. Tre bambini, apparentemente guariti, erano stati invece fulminati da una paralisi cardiaca da tossiemia, dalla lordura che avevano nel sangue. Quattro se li era portati via la scarlattina, un altro la difterite, 73 la broncopolmonite: tutti ragazzi di neanche dodici anni. La novenne Rosa Macrì di via Sorvara a Spinetto, pur avendo le carni crepitanti come carta velina e un enfisema cutaneo che, partendo dalla cervice, le avvolgeva il torace e l’addome fino alla radice delle cosce, fortunatamente non morì.

 Il veterinario Ferrara e le sue squadre, aiutati dai carabinieri, dovevano entrare a forza nelle case (234 a Terravecchia, 211 a Spinetto), per disinfettarle con soluzione in acqua di sublimato corrosivo, ridurre gli abitanti all’agonia di un bagno caldo, lavarne i poveri panni con l’acqua di Labarraque e quindi costringerli a spalmarsi sul corpo finalmente pulito la pomata a base di acido salicilico.

 Ma la gente continuava a raccogliersi e a sciamare dalla casa alla chiesa al cimitero, a organizzare processioni e veglie, a baciare le statue mute, tremendo veicolo d’infezione, invocando la benedizione dell’aria, convinta com’era della generazione spontanea di una malattia inviata dal Signore a proliferare nei miasmi per punire, nella fragile scorza dei figli, i peccati dei genitori.

Aveva tentato, Romano, di porre un freno alla follia popolare sfruttando l’autorevolezza del medico, le prerogative dell’Ufficiale Sanitario, la persuasività dell’uomo di scienza. Venuto casualmente a sapere della diffusione del morbillo, aveva sollecitato l’ordinanza del primo maggio con la quale i padri di famiglia, gli insegnanti di scuole pubbliche e private, le majìstre, gli osti e gli altri venditori di bevande spiritose venivano obbligati a denunciare i casi di malattie esantematiche. La sera del 21 maggio si era precipitato dal sindaco Luigi Filippo Chimirri - fratello del quasi settuagenario, illustrissimo avvocato Don Bruno Chimirri, ex ministro dell’Agricoltura e poi delle Finanze, senatore del Regno – e aveva inutilmente richiesto che la processione fosse vietata. Le scuole erano state chiuse, certo, ma a che pro, se poi quegli stessi bambini venivano trascinati in riunioni e processioni affollate di sputazze?

 Il 7 giugno, finalmente, di fronte a una situazione prossima all’insostenibilità, l’amministrazione comunale decideva di raccogliere tutto il suo coraggio ed emanare l’ordinanza in base alla quale si vietavano «tutti gli assembramenti di persone da qualsiasi motivo determinati sia in luogo aperto che in luogo chiuso».

 Ma si sa, è la constatazione amara di Romano, che il fanatismo politico e religioso è come corrente elettrica che si propaga non vista, ma avvertita e profonda, nelle moltitudini invase da un’idea, e facilmente si acutizza, trascinando la massa in uno stato di febbre convulsiva che la rende capace solo di sentire, non di riflettere né di ragionare, per consegnarla legata mani e piedi a preti e politicanti indaffarati a perpetuare ed estendere la loro forza. Politica e religione, anch’esse colpevoli in quanto complici dell’epidemia, Romano le ritrae a tinte fosche, come forze oscure, irrazionali e impersonali, intente a complottare ai danni della luminifera verità della scienza, con modi e toni che richiamano da vicino quell’anticlericalismo e materialismo fin troppo schietto e becero di riviste ottocentesche come il Libero Pensiero (dal 1873 il Libero Pensatore), il sedicente «giornale dei razionalisti» uscito settimanalmente tra il 1866 e il 1875 prima a Parma, poi a Firenze e infine a Milano.

 E l’accusa più infamante dalla quale Romano deve difendersi è proprio quella, mossagli dai preti, di essersi inventato tutta la storia del contagio e della quarantena solo per dare libero sfogo al suo conclamato anticlericalismo, per impedire alla gente di andare a messa e riuscire così a minare alla radice la religiosità del popolo.

 L’amministrazione non aveva perso tempo a fiutare il sentimento popolare e ad assecondare la volontà di un popolino piegato dalle «lojolesche mene» dei preti: dopo sole 48 ore l’ordinanza del 7 giugno veniva revocata dal sindaco su «conforme parere della Giunta Comunale» sulla base della constatazione che «nessuna misura preventiva poteva ormai evitare il contagio». Una giustificazione assurda che alle orecchie di Romano suonava come un insulto personale, probabilmente dettata non da senatoriale ebetudine ma da un lucido e consapevole calcolo politico.

Ferito, insultato e offeso, Romano rassegnava quindi le proprie dimissioni dall’incarico di ufficiale sanitario, dimissioni che sarebbero state effettive non appena terminata l’epidemia. Scavalcando il Comune, si rivolgeva direttamente alla Provincia e alla Prefettura, invocando la forza bruta dei carabinieri - la bajonetta finalmente - a vigilare a che i malati non ricevessero visite e non uscissero di casa; garantiva ai cittadini e agli studenti l’accesso alle scuole e agli altri uffici pubblici solo se vestiti con abiti freschi di bucato, aumentava la frequenza delle disinfezioni, fermamente determinato a ripulire il paese dal morbo e dalla lordura.

 Alla metà di luglio, finalmente, l’epidemia era rientrata. Le scuole venivano riaperte, e Romano si apprestava a redigere la relazione da inviare all’Ufficio Sanitario Provinciale. Tuttavia, non intendendo lasciare che tutta la vicenda si riducesse ad un dattiloscritto da far ingiallire negli archivi della Provincia, al contrario fermamente deciso rendere pubblica la sua relazione, non solo come piccolo contributo alla letteratura epidemiologica sul morbillo, allora in forte aumento, ma anche e soprattutto come atto d’accusa nei confronti della gente, del Comune e della Parrocchia, il primo agosto Romano faceva frettolosamente stampare il suo resoconto alla tipografia L. De Francesco & Raho di Serra San Bruno e ne inviava una copia alla Provincia, l’altra alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, dove sarebbe stata custodita e quindi resa pubblica, un memento per ricordarsi di cosa può succedere quando una popolazione è abbandonata a se stessa, alla sua ignoranza, e viene privata della competente e continua attenzione dei propri medici.

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