mini libro_rubbettinoIn una notte buia e senza luna, dopo un viaggio estenuante e con lo stomaco in subbuglio per il tragitto in corriera lungo la vecchia statale 110 (che, rispetto agli anni in cui è ambientato il romanzo, è persino peggiorata n.d.r.), Bruno Randò fa ritorno a Fabrizia, il paese dal quale era partito tre anni prima in cerca di fortuna. Sono tempi duri. Il fascismo governa il paese e chi come Bruno non ha voglia di chinare la testa non se la passa certo bene. E così che il giovane calabrese è costretto a tornare a bussare alla porta di quel tugurio che aveva lasciato con la bisaccia carica di belle speranze. Insieme a lui Ornella, la giovane moglie del Nord che, impaurita e preoccupata, gli si stringe accanto. L'incontro tra la famiglia d'origine di Bruno e la graziosa signora settentrionale non poteva essere dei peggiori. La madre piange come per un figlio morto, il padre dimostra al giovane tutto il suo astio per quella scelta che gli appare sciagurata. Chi era quella donna? Che voleva da loro? Doveva essere certamente «una ballerina... di quelle che fanno la magia. Robe da romanzi, da far atterrire tutto il paese, da far rivoltare persino i santimorti del Camposanto, uno schifo».
 
Inizia così C'è ancora una stella, romanzo dello scrittore di origini fabriziesi Serafino Maiolo (1911-1964), noto ai più per essere stato il padre di Tiziana Maiolo, dapprima giornalista del Manifesto, poi militante radicale e infine ex deputata di Forza Italia e assessore della giunta Moratti al Comune di Milano; opera che Rubbettino manda in libreria a gennaio con un'originale introduzione dello scrittore Gioacchino Criaco.
 
È un incipit che sorprende, un esempio da manuale di xenofobia intesa nel senso etimologico del termine, di paura dello straniero di chi è diverso da noi. Sono due mondi che si confrontano in modo spietato e crudele. Ornella è bella, colta, raffinata. Di fronte a tanto squallore non può non pensare al suo paese «con i vertici dei sei campanili, i portici allineati sullo stradone principale, il convento dei cappuccini e la bella chiesa di San Lorenzo, disteso nell'ubertosa pianura, in una delle anse del Po, doviziosa di messi di bietole, di quei ciliegi che quando fioriscono, in aprile, a maggio, offrono un colpo d'occhio fiabesco e sembra tutta una serra profumata, uno sterminato paradiso». Come rassegnarsi invece a quella nera miseria che, come spesso accade a chi ha lasciato il proprio paese, nel ricordo di Bruno era invece più vicina a una modesta agiatezza?
 
Ecco che i due pregiudizi si incontrano o, meglio, si scontrano. Ad Ornella tornano in mente le parole delle sue amiche che le dicevano che «i "napoletani" sono sudici, che dalle loro parti non si conosce il sapone e che quando Garibaldi ce l'aveva portato, i "napoletani" se l'erano mangiato». I reciproci stereotipi formano una barriera tra la "forestiera" e i genitori di Bruno, barriera che tuttavia si infrange quando Ornella, stanca, spaventata e depressa comincia a piangere. Ecco allora che la madre di Bruno intuisce che in fondo quella donna non è un'astuta poco di buono, pronta a portare il figlio sulla via della perdizione, e appronta con quel poco che c'è in casa una cena. La giovane donna, dal canto suo, capisce che gli anziani genitori del marito non sono dei selvaggi ma due poveri contadini che hanno sul viso, sulle mani e sulle spalle gli anni di dura fatica nei campi.
 
C'è ancora una stella vide la luce nel 1959 presso l'editore Ceschina di Milano. È il secondo romanzo di Maiolo di ambientazione fabriziese. Il primo, Ciaramaca, è del 1949. Ambedue i romanzi possono essere ascritti a pieno titolo al filone neorealista, seppure C'è ancora una stella vi entri un po' tardivamente. Erano gli anni in cui si scopriva un'Italia marginale, diversa, fino ad allora sconosciuta. Il cinema, la letteratura e l'antropologia si interessavano sempre più alle "indie di quaggiù", come già nel Seicento i gesuiti definivano quella costellazione di piccoli mondi contadini sparsi soprattutto nel Mezzogiorno d'Italia.
 
Quegli anni di lavoro ci hanno regalato una mole altrimenti impensabile di ricostruzioni, filmati, documentari, romanzi e racconti spesso di straordinaria qualità letteraria (si pensi ai "grandi" calabresi, come Perri con i suoi Emigranti, Seminara con Le baracche o al Corrado Alvaro di Gente in Aspromonte per citarne solo qualcuno) e, tuttavia, non sono serviti, in molti casi, a conoscere meglio la realtà ma sono stati funzionali, come ha spiegato di recente Vito Teti in Maledetto Sud alla costruzione di un nuovo stereotipo speculare a quelli che avevano circolato fino ad allora.
 
Al mito del meridionale ozioso, sudicio, infingardo si sostituiva quello del Buon Selvaggio, del meridionale capace di sentimenti sinceri che si contrapponevano a quelli della borghesia del resto d'Italia fatta di opportunismo e falsità. A questa trappola non sfugge nemmeno Maiolo. Il suo è un romanzo in cui Nord e Sud diventano due modi di vivere, di intendere la realtà e i sentimenti umani.
 
Fabrizia, il paese di Bruno, è un paese cupo, un paese "che non sa cantare", nel quale persino la religione sembra risentire degli echi dei lugubri misteri orfici che si celebravano in queste terre in epoca remota. Gli stessi santi appaiono lontani e capricciosi. San Vito la cui effigie viene portata in processione per chiedere la grazia della fine della siccità, risponde alle preghiere dei fedeli con un'alluvione che devasta il paese. Su tutto incombe il senso del fato.
 
Eppure Ornella, con gli occhi del cuore, con quegli stessi sentimenti che le avevano permesso un punto di incontro con i genitori del marito, riesce ad andare oltre quella spessa corazza fatta di secoli di soprusi, disgrazie e ignoranza e, di fronte alla possibilità concreta di lasciare il paese per tornare alla sua vita di prima, sceglie di rimanere accanto al marito, a quella che considera ormai la sua gente. «È meravigliosa questa gente – dirà al suo spasimante del Nord insieme al quale aveva progettato la fuga – ha un cuore grande e se anche soffre, non abbandona la fiducia nella terra e nel cielo».
 
Sbaglierebbe tuttavia il lettore che vedesse nel romanzo di Maiolo unicamente una sorta di Libro Cuore calabrese. Il "paese che non sa cantare" di Maiolo è al tempo stesso luogo di disperazione e di speranza, di tragedia e di nuova vita, oggetto d'odio e di amore. È un paese dal quale gli abitanti sono spesso costretti a fuggire ma ovunque essi vadano c'è sempre una «piccola stella che ogni notte lampeggia sul Monte Pecoraro e li vigila da lontano per le vie del mondo».
 

Antonio Cavallaro (Rubbettino Editore)

 
(articolo pubblicato su ''Il Quotidiano della Calabria'')
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mini kaulonRiceviamo e pubblichiamo:
La notizia sta facendo un po’ il giro del mondo, accolta con grande entusiasmo da archeologi e storici: l’antica Kaulon (nei pressi dell’attuale Monasterace, in provincia di Reggio Calabria) ha restituito un altro straordinario gioiello dell’arte greca che fa da pendant al famosissimo drago di Caulonia: un mosaico di 25 metri quadrati raffigurante un altro drago inserito in un contesto naturalistico di straordinaria bellezza. Il mosaico del IV secolo a.C. è probabilmente il più imponente del suo genere di tutta la Magna Grecia.
A fare la sensazionale scoperta è stato l’archeologo Francesco Cuteri autore per Cittacalabria (Gruppo Rubbettino) di una interessante “Guida alla Calabria greca” (ISBN 978-88-88948-69-0 - pp. 134 - € 10,00) che sarà possibile acquistare da lunedì in libreria.
La Magna Grecia raccontata da Cuteri è una terra di miti, di culti, templi. Secondo l’autore “l’aggettivomagna non deve essere inteso con valore comparativo rispetto a una Grecia più piccola, è probabile che abbia un significato più strettamente religioso. Ci si troverebbe dunque in presenza di una Grecia sacra, particolarmente legata alle divinità ctonie (sotterranee) e ai culti misterici”. 
E’ proprio da questa Magna Grecia così ricca di fascino e mistero che vengono i due draghi di Kaulon ed è proprio questa Calabria che l’autore, noto archeologo, tra i pochi, peraltro esperto di archeologia medievale e bizantina, ci invita a scoprire con questa guida.
Ufficio stampa Rubbettino editore
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mini carmine_abate_campiello_280xFreeL’asserzione del titolo può sembrare una boutade o anche un’iperbole eppure il primo libro di Carmine Abate (se si eccettua una raccolta di versi) è stato proprio un’interessante saggio sul mondo dell’emigrazione calabrese scritto a quattro mani con la moglie Meike Behrmann e apparso in Germania per i tipi di Campus Verlag corredato da un prestigioso saggio di Norbert Elias. Il libro pubblicato in Italia con il titolo “I Germanesi” nel 1986 (Pellegrini) è stato di recente riproposto in coedizione da Rubbettino e Ilisso nella collana “Scrittori di Calabria”.
Ma perché tanta attenzione a questo saggio?
Perché contiene già i temi cari a Carmine Abate: la vita e i rapporti sociali all’interno delle piccole comunità rurali, l’emigrazione, il mondo Arbereshe, la difficile identità “di frontiera” degli emigrati, specie di quelli Albanesi costretti a un duplice processo di sradicamento e riadattamento non sempre facile a nuovi contesti culturali...

Frutto di una lunga ricerca sul campo, svolta in parte in Germania e in parte in Italia dal 1978 al 1982, il libro racconta la vita di una comunità e dei suoi abitanti. Il paese preso in esame è Carfizzi, paese natale dello scrittore, in provincia di Crotone, dove vive una delle numerose comunità Arbereshe della Calabria. Uno dei punti cardine del volume è l’analisi dei rapporti tra i membri della comunità e un gruppo di compaesani emigrati in Germania (i germanesi, appunto). Rispetto ad altri lavori sull’emigrazione qui la prospettiva è completamente rovesciata: non si studiano tanto le implicazioni dell’emigrazione ma i mutamenti sociali che questa ha creato partendo proprio dai rapporti con la comunità d’origine.

Un libro dunque di grande interesse, forse finora poco letto e conosciuto, ma che gli estimatori del narratore calabrese dovrebbero certamente leggere per comprenderne a fondo l’opera e gli orizzonti culturali.

Antonio Cavallaro

(ufficio stampa Rubbettino editore)

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mini francesco_bevilacqua2Rubbettino lancia nella prestigiosa collana “viaggio in Calabria” Sulle tracce di Norman Douglas. Avventure fra le montagne della Vecchia Calabria di Francesco Bevilacqua (foto).

Se una mattina di inverno un avvocato si inerpicasse per irti sentieri e scoscese mulattiere, dotato di scarponi, bastone e per unica guida il capolavoro di Norman Douglas “Vecchia Calabria”, probabilmente se ne perderebbero dopo poco tempo le tracce e il suo nome risuonerebbe a lungo tra le valli delle montagne di Calabria urlato dai cercatori arrivati nel frattempo in soccorso…

Non così però se quell’avvocato si chiama Francesco Bevilacqua, probabilmente il miglior conoscitore del territorio calabrese e autore di numerose pubblicazioni sulle montagne e la natura della nostra regione. Bevilacqua non è però solo un infaticabile camminatore, ma è anche un raffinato intellettuale che sa mescolare bene il racconto delle foglie dei pioppi a quello dei fogli dei libri di narratori calabresi, antropologi, viaggiatori… in una trama ben ordita che affascina il lettore.

Da questa passione per la cultura e la natura nasce dunque l’idea di questo libro che rappresenta una vera e propria sfida a cui Bevilacqua non poteva sottrarsi: quella di ripercorrere il più celebre viaggio in Calabria di tutti i tempi, quello di Norman Douglas, e di riuscire a narrarne con altrettanta eleganza la storia. Sfida che a giudicare dalla piacevolezza della lettura di questo libro, può certamente dirsi senz’altro superata.

Bevilacqua cerca sulle montagne calabresi lo spirito di Douglas e il genio dei luoghi. Sulle cime impervie, solitarie e selvagge del Pollino, della Sila, delle Serre, dell’Aspromonte. Osservandole con occhi incantati, facendone la sua patria, percorrendole sino a sfiancarsi, contemplandone la bellezza, riflettendo sulla Calabria da ri-scoprire per i suoi straordinari paesaggi naturali e su quella da ri-coprire per (ahimè) le tante nefandezze perpetrate dagli uomini.

Antonio Cavallaro (ufficio stampa Rubbettino)

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mini thumbfalsecut1333476731591_475_280riceviamo e pubblichiamo nota stampa di Rubbettino editore:

La notizia dell’avviso di garanzia a Belsito, giunta come un fulmine a ciel sereno sui cieli della Padania non ha certo colto di sorpresa Enzo Ciconte, autore del libro “Ndrangheta padana”, edito da Rubbettino e disponibile sia in libreria che in formato ebook. “Ho denunciato tutto due anni fa – ha dichiarato ai nostri telefoni Ciconte – la ‘ndrangheta è sempre più un problema del Nord.

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mini solo_dinanzi_allunicoSERRA SAN BRUNO – Il mozzo che si arrampica sull’albero maestro per “scrutare i segni del mondo nuovo”. Il monaco, l’uomo, deve essere sempre vigilante, “totalmente teso verso il futuro a cui anela”. Le parole del priore della certosa di Serra, dom Jacques Dupont, che il giornalista del Corriere della Sera Luigi Accattoli ha raccolto nel libro “Solo dinanzi all’Unico” (Rubbettino 2011, pp. 140, 12 euro), presentato ieri sera nella chiesa dell’Assunta di Terravecchia, sono un “balsamo per l’anima”, un lenitivo per la coscienza interiore dell’uomo di oggi che, nell’iperattività vacua della società postmoderna, non riesce a raggiungere ciò a cui invece il certosino dedica la vita: il distacco dal mondo per entrare in comunione con Dio. Un colloquio frutto di tre giorni intensi, di vita certosina per Accattoli, di insolite confidenze per dom Jacques. Il risultato è un libro “che arricchisce e consola – ha commentato don Armando Matteo – un libro che genera quelle lacrime che puliscono l’occhio dell’uomo e gli consentono di vedere meglio”. In vista della visita del Papa in certosa, il priore ha accettato di sottoporsi alle tantissime domande rivoltegli dal decano dei vaticanisti italiani: dall’incontro con Dio nel tempo di internet al silenzio dei certosini nel chiasso del mondo attuale, dalle abitudini dei monaci di clausura alla possibilità che i giovani di oggi ci si possano adattare, dall’interpretazione (per niente tradizionale) del ruolo dell’ascesi al significato di parole come “sessualità”, “peccato”, “misericordia”. Il compito del monaco, o del mozzo che scruta l’orizzonte, secondo dom Jacques è quello di “dire” all’umanità di oggi che “Dio è anche in questo mondo e in questo tempo”.

Ad organizzare l’interessante presentazione del libro è stata l’Arciconfraternita dell’Assunta di Terrvacchia insieme al Museo della Certosa e alla casa editrice Rubbettino. Ad introdurre i lavori del convegno ha pensato il priore pro-tempore dell’Arciconfraternita, Vito Albano, che ha parlato della “vicinanza non solo fisica tra i certosini e i serresi, vicini nei secoli soprattutto attraverso la preghiera”. A coordinare gli interventi è stato invece Antonio Cavallaro, direttore commerciale della Rubbettino, che si è soffermato sull’affascinante rapporto tra monaco e silenzio. Quindi don Armando Matteo, scrittore e docente universitario, ha spiegato che il libro di Accattoli “va vissuto come un viaggio in compagnia di un mozzo eccezionale, visitando luoghi noti e altri ignoti ed entrando nel cuore di chi ha vissuto 41 anni di vita certosina”. L’amore cristiano, secondo dom Jacques, è vero solo se riesce ad “abbeverarsi della compassione, della tenerezza e della misericordia”.

“Mi sono lasciato convincere – ha spiegato il priore della certosa – perché qualche eccezione ogni tanto ci vuole, e perché è giusto, anche se raramente, ascoltare le parole che vengono direttamente dai certosini. Il libro – ha aggiunto – è il frutto di un incontro molto piacevole tra due mondi molto diversi, quello della comunicazione e quello del silenzio. L’isolamento secondo noi è negativo – ha concluso dom Jacques – ma la solitudine, che è ben altra cosa, è la via per la comunione con Dio”. 

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