Domenica, 10 Aprile 2022 05:24

FIMMINA DI RUGA | Il corredo

Scritto da Giuseppina Vellone*
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Donne di Peñaflor (Andalusia, Spagna) che ricamano i diversi pezzi del corredo (foto tratta da http://lamemoriadelcuco.blogspot.com/) Donne di Peñaflor (Andalusia, Spagna) che ricamano i diversi pezzi del corredo (foto tratta da http://lamemoriadelcuco.blogspot.com/)

È stato qualche giorno dopo la morte di Deborah. In preda allo smarrimento, mi sono messa a riordinare la stanza di mia figlia Diletta prendendo di mira le grandi scatole a fiori che contengono il suo corredo.

Ebbene sì: anche Diletta, come me da ragazza, ha già un corredo pronto, iniziato appena qualche anno dopo la sua nascita. E sono arrivata lì, all’unico pezzo del mio corredo che conservo gelosamente ancora intatto, mentre tutti gli altri, nel corso degli anni, li ho usati. Le ho passato una cosa destinata a me, non comprata per lei, come molte donne della mia famiglia hanno fatto con le loro figlie. Non so perché, o meglio, non sapevo perché in quel momento. Dopo l’ho compreso, solo dopo.

Quell’unico pezzo è il lenzuolo cosiddetto della prima notte. No, non è come può sembrare: già quando mi sono sposata io, nel 1989, non era più consuetudine...

Un lenzuolo in lino, con ricami fini ed elaborati che lo rendono quasi impalpabile

Le mie mani, loro, non io, l’hanno preso in mano. Ed è stato lì che ho capito perché qualcosa mi aveva guidato su per le scale, fino in camera di mia figlia, ad aprire proprio quelle scatole e a estrarre proprio quel lenzuolo.

Smarrimento. Era stato ciò che avevo provato esattamente il giorno dopo il matrimonio, quando nella cuccetta del treno, insieme a Vittorio, stavo risalendo dalla punta dello Stivale fino alla pianura padana. Con mio marito e con la valigia del viaggio di nozze in cui portavo una camicia da notte bellissima, regalo delle cugine di mamma, parte importante del mio corredo. Sentii allora e in modo viscerale il distacco. E, con esso, lo smarrimento. Perché sapevo cosa stavo lasciando; non sapevo, ma intuivo ciò che mi aspettava.

Me ne resi conto subito, nei giorni del mio primo insediamento pensato come non temporaneo a Verona. Una città. Al nord.

Non più la vita delle rughe, lo spazio di fuori; ma erano gli spazi interni quelli che contavano; io non ero abituata, non capivo.

Passarono pochi altri giorni e lo smarrimento non solo non diminuiva, ma, anzi, cresceva. Un gesto di gentilezza dei vicini, l’abbigliamento delle donne la sera sulle porte di casa, gli sguardi e mille altri segnali. Ecco cosa non mi tornava più: il mio codice comunicativo e sociale.

Il “mondo veneto” parlava un altro linguaggio, che non è fatto solo di parole, ma di tutto ciò che accompagna, anzi, talvolta sovrasta, il significato delle parole.

Mi trovavo in un nuovo mondo, in cui i miei quasi trent’anni di vita al sud sembravano non trovare più punti di riferimento. Gli anni dell’università a Napoli poco avevano cambiato: forse perché lì ero e mi sentivo di passaggio. E poi anche Napoli vive nei suoi vicoli. E delle sue feste. Come quelle che a Serra San Bruno e nei paesi vicini riempiono la vita, dalla Pentecoste ai Morti.

Mi mancava il mio corredo di vita e la vita che serviva per preparare il corredo.

Per preparare il corredo di una ragazza intervenivano a turno tutte le parenti. L’intreccio delle relazioni era pari a quello dei ricami, fatti in casa, o, nelle lunghe sere d’estate, anche per strada, nelle rughe, dove le donne si sedevano, spesso con un’altra sedia davanti su cui poggiavano i tessuti, e, sotto, i piedi per stare più comode. E se qualche altra donna passava, non poteva non fermarsi per commentare, di solito per elogiare, il lavoro in corso. Che poi finiva magari per essere solo l’abbrivio per passare ad altri discorsi, a racconti, a preghiere.

Il corredo veniva realizzato a mano. Una parte poteva anche essere comperata già fatta; ma sempre e solo di alta qualità: di lino naturalmente, misto lino solo per “le cose di ogni giorno”.

Mia madre comprava da quel rappresentante che veniva da Cantù. Le donne della mia famiglia si riunivano da noi e sceglievano, con la partecipazione di tutte, pezzi di corredo per le figlie di ognuna.

Ci sapeva fare con le nostre donne quel signore, aveva un che di seduttivo nei gesti e nella voce. Per comperare certi capi le donne non esitavano a firmare cambiali.

Comprata da lui è la tovaglia bianca con tenui ricami grigio perla, regalo della nonna per la mia Prima comunione. Sembra una nuvola: impalpabile, leggera, eterea.

Poco prima di sposarmi ho fatto aggiungere al mio corredo altre cose un po’ anomale, come una tovaglia con le mimose gialle dipinta e non ricamata, anche se rifinita da me con archetti all’uncinetto teneri e modesti e una tovaglia di lino rosa con le viole per festeggiare l’arrivo della primavera.

Poi Mena e Teresa mi hanno regalato rotoli di canapa grezza delle dimensioni del telaio, tessuti in casa. Li ho lavati e aperti e uniti con strisce fatte a uncinetto: il risultato è che sono delle tovaglie uniche. In una ci sono i melograni, frutti amati da me e da mia mamma, che papà comprava per noi. Quando li aprivamo i chicchi rubino sembravano alveari barocchi, le gocce di succo nettare anche per gli occhi.

Il pezzo forte del mio corredo è il copriletto di lino écru ricamato con intarsi a festone e fiori a punto broccatello; tutte le mie cugine e le loro figlie, tutte le figlie delle amiche di mamma hanno lo stesso copriletto.

Tutte le donne della mia famiglia hanno lavorato a tutte le coperte: si dava la precedenza per “età da marito”, ma se un innamoramento improvviso sovvertiva l’ordine, la squadra si attrezzava e le mie zie, mia madre e la cugina “Nziata”, esperta del punto broccatello, entravano in una sorta di periodo di emergenza: si lavorava solo per chi si sarebbe sposata a tempi breve.

A matrimonio avvenuto si riprendeva il ritmo gerarchico, i tempi si allungavano e i giorni del ricamo tornavano a essere il pretesto per stare insieme. Nessuna fretta, giorni sereni: un punto dopo l’altro, un fiore dopo l’altro, una federa, due federe, il lenzuolo; un pezzo dopo l’altro e alla fine la cassa si riempiva e la giovane donna poteva andare nella nuova vita accompagnata da chi l’aveva amata.

Uno scoglio a cui aggrapparsi nei momenti dello smarrimento.

*Psicoterapeuta, fondatrice della Onlus Famiglieperlafamiglia e responsabile di Casa di Deborah, nel 2021 ha pubblicato Fimmini di ruga, il libro da cui è tratto questo brano e da cui prende il nome la rubrica che cura per il Vizzarro.

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