Sabato, 01 Maggio 2021 12:19

Chiacchiere e resilienza: per il Sud, il Recovery Plan è questo e poco altro

Scritto da Francesco Barreca
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Leggere il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è, in un certo senso, un’esperienza esilarante, non solo per il titolo e quel “resilienza” che sembra venir fuori direttamente dal tatuaggio dell’influencer presso se stesso in cerca d’attenzione su Instagram, ma anche e soprattutto perché nelle 273 pagine che lo compongono c’è un baccanale di acronimi, anglicismi, programmi-quadro, missioni, obiettivi e sotto-obiettivi i quali fanno sicuramente correre più di un brivido di tensione sessuale lungo la schiena dei burocrati di Bruxelles e al di là dei quali non è difficile scorgere un sottotesto di meravigliosa, italianissima comicità: se-non-facciamo-così-questi-i-soldi-non-li-cacciano. Dobbiamo mostrarci attivi, propositivi, con le idee chiare, capaci di individuare i problemi e risolverli. Sarà per questo che parole come “Sud” e “Mezzogiorno” compaiono relativamente spesso (rispettivamente 16 e 26 volte): dobbiamo dimostrare di essere consapevoli che, ad esempio, il sud Italia è “il territorio arretrato più esteso e popoloso dell’area euro” e che “il suo rilancio non è solo un tema italiano, è una questione europea.” (p. 37). Caspita, una questione europea. Allora è lecito aspettarsi che ci sia un progetto generale, una visione d’insieme sui problemi del sud, un programma complessivo che permetta di affrontare questa “questione europea” in maniera strutturale e definitiva, no? Se la questione meridionale è una questione europea dovrebbe essere trattata come tale, cioè come il fulcro di un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. – Ecco, no: non c’è un progetto complessivo per il sud, per “il territorio arretrato più esteso e popoloso dell’area euro” (riscrivo e ribadisco perché l’enfasi sul sud è nel PNRR ed è uno dei motivi dominanti del dibattito pubblico), ma solo interventi specifici e, in genere, comuni a tutti gli altri, che sommati arrivano al 40% della spesa complessiva. Perché mai una questione così importante – o almeno riconosciuta come tale – alla fine non merita un’attenzione, una destinazione di risorse, un’organizzazione di capitoli di spesa particolare? La risposta è che, lasciando perdere le dichiarazioni e gli acronimi, la questione meridionale è inaffrontata ed è evocata solo perché così prevedono la prassi e le norme per accedere ai fondi europei: abbiamo il territorio arretrato più esteso e popoloso d’Europa, voi dovete darci un sacco di soldi.

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Credo che se qualcuno di buona volontà si mettesse a calcolare, anche grossolanamente, il volume complessivo di carta usato per cercare le origini, la natura, l’evoluzione e le possibili soluzioni al problema del divario nord-sud e più in generale alla questione meridionale, quel qualcuno scoprirebbe con sconcerto che l’attenzione a questo problema ha contribuito in maniera significativa alla deforestazione globale. Perché se sempre quel qualcuno decidesse di capire come mai l’ufficio postale di Erba in provincia di Como funziona meglio di quello di Melicucco in provincia di Reggio Calabria (facciamo per dire, non so se sia effettivamente così) prima o poi si ritroverebbe quasi certamente ad avere a che fare con cose come il reintegro delle giurisdizioni feudali nel Regno di Napoli avvenuto sotto gli Aragonesi tra il XV e il XVI secolo o con la prosopografia del patriziato meridionale nel periodo Borbonico. Insomma, si tratta di una questione maledettamente complicata, intorno alla quale sono possibili infinite narrazioni e ancor più infinite interpretazioni, e perciò noi che abbiamo una certa coscienza ambientale è bene che ci limitiamo a periodi recenti e a mere constatazioni sparse, osservando che l’esistenza di un divario nord-sud fu uno dei presupposti e uno dei fattori principali che contribuirono al cosiddetto miracolo economico del secondo dopoguerra, perché il sud era un ampio serbatoio di manodopera a basso costo e scarsamente specializzata la quale, trasferendosi al nord, alimentava sia un vivace mercato immobiliare di abitazioni sub-standard che circoli economici di prossimità, mentre con le rimesse integrava e talvolta surrogava l’assistenzialismo statale, sostenendo così, al sud, un’economia di sussistenza in grado di produrre altra manodopera a basso costo in grado di sostenere lo sforzo economico Italiano. Sono questi gli anni gloriosi in cui, come si legge nel PNRR, il divario si riduce e tutto sembra andare per il meglio; il giochino, però, non poteva durare: a partire dalla fine degli anni ’70 l’economia si fa sempre più globale e interconnessa, la politica non sa come aiutare le piccole e medie imprese che costituiscono il grosso dell’industria italiana a fronteggiare una concorrenza sempre più spietata, le rimesse cominciano ad assottigliarsi con i successivi ricambi generazionali e la trasformazione della base sociale dell’emigrazione, e infine lo Stato, fino ad allora ancora in “modalità ricostruzione”, tende a svincolarsi – attraverso privatizzazioni, liberalizzazioni ed esternalizzazioni – dall’impegno diretto nell’economia fondamentale (infrastrutture, servizi, sanità, educazione).  Ed è così che, come ci assicura lo SMIVEZ, si assiste prima a una stagnazione del divario nord-sud e poi, dagli anni ’90, addirittura a un suo ampliamento, fino ad arrivare ad oggi, in cui la situazione, comunque la si guardi, appare drammatica.

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Bisogna dunque ridurre il divario. Questo c’è scritto nel PNRR e a questo scopo, ci dicono, addirittura il 40% (quaranta-per-cento) delle risorse di questo PNRR è destinato al Sud. Bene. Anzi, benissimo. Però, se vale quanto scritto sopra (e per quel che mi riguarda vale, altrimenti non l’avrei scritto), il problema è sì quello dei soldi, ma anche di come i soldi vengono spesi, cioè di quelle condizioni strutturali che, se lasciate come sono, faranno valere la semplice relazione aritmetica in base alla quale se metto metà soldi al nord e metà al sud alla fine non sto cercando di colmare il divario tra nord e sud ma soltanto di mantenere le cose come stanno, magari solo un po’ meglio. Prendiamo il potenziamento delle linee ferroviarie e dell’alta velocità, una cosa di cui il mezzogiorno ha urgentemente bisogno se vuole “essere competitivo” e “ridurre il divario di cittadinanza” (parole loro): ebbene, le risorse per questo progetto (pardon, missione) sono ripartite tra nord e sud più o meno a metà, anche se dei quasi 1500 chilometri di tracciato ad alta velocità solo 500 scarsi si trovano al momento a sud di Firenze: non proprio una ripartizione pensata per colmare un divario infrastrutturale, se posso dirlo. Nel caso dei servizi idrici, si individua la necessità (p. 154) di “un intervento centrale” (cioè una nuova impostazione nella gestione) e subito dopo si afferma che tale intervento deve favorire “la costituzione di gestori integrati, pubblici o privati, con l’obiettivo di realizzare economie di scala e garantire una gestione efficiente degli investimenti” (cioè si continua come al solito, con Sorical e para-Sorical, aziende private o partecipate in cui i fondi pubblici coprono i debiti e/o fanno investimenti e i privati si pappano gli utili). Per quanto riguarda la sanità, poi, si riconosce che il primo problema strutturale fatto emergere dalla pandemia è quello delle “significative disparità territoriali nell’erogazione dei servizi” (p. 225), ma gli interventi prevedono strutture intermedie a gestione principalmente infermieristica e digitalizzazione: a ridurre le disparità territoriali in ambito sanitario – prima e più grave criticità messa in luce dalla pandemia, a quanto si legge nel PNRR –  saranno dunque qualche Ospedale di comunità e il Fascicolo Sanitario Elettronico. Si potrebbe continuare ma, come detto sopra, abbiamo una coscienza ambientale, perciò veniamo al punto: non c’è un piano per ridurre il divario Nord-Sud; ci sono finanziamenti per fare andare avanti le cose e lasciare tutto com’è, in ossequio all’ortodossia secondo la quale l’investimento pubblico deve fare da “catalizzatore della produttività delle imprese private” (p. 248). L’ambizioso programma per rilanciare il mezzogiorno e risolvere questa grave questione europea, questo Grande Balzo in Avanti, è semplicemente fare le stesse cose che si fanno altrove e si sono sempre fatte (con esiti non proprio felici), solo “con particolare attenzione” e “maggiore impegno”.

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In realtà non è che si possano muovere chissà quali grandi obiezioni al PNRR, a parte la frequenza inquietante, patologica, disturbante e disturbata dell’uso dei lemmi resilienza e resiliente: c’era da accedere a fondi dei quali avevamo disperatamente bisogno, bisognava fare il necessario per ottenerli e il necessario è stato fatto. Tutto il resto, si dice, si può affrontare dopo. Il sud avrà i suoi soldi, quasi la metà dell’intero malloppo – il che, considerato che al sud vive un terzo della popolazione, non è male. Si spera che le cose migliorino, ma certamente non sarà questo PNRR a produrre quell’epocale svolta nelle politiche sul meridione che permetterà di ridurre il divario con il centro-nord: questa è la favola che presentiamo ai burocrati acronimomaniaci di Bruxelles nella speranza che ci credano. Per ora il meridione serve così com’è: il territorio arretrato più esteso e popoloso dell’area euro, quello con “più bassa produttività, qualità e quantità del capitale umano” (p. 37), perché c’è qualcosa come 200 miliardi di euro da arraffare. Non c’è che dire: tutti avrebbero bisogno di un mezzogiorno arretrato da buttare sul tavolo delle trattative di Bruxelles. Per fortuna che ce l’abbiamo noi.

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