Domenica, 26 Aprile 2020 14:29

La strage nelle case di cura e la “nuova normalità”. Ma i morti non sono numeri

Scritto da Sergio Pelaia
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(foto da La Stampa) (foto da La Stampa)

SERRA SAN BRUNO - Lo avevo conosciuto in un’estate di diversi anni fa al Brigante. Una delle tante estati del Brigante fatte di incontri casuali e discorsi che durano il tempo di una salsiccia alla brace. Lui era un chimico e aveva saputo della nostra lotta per l’acqua, si era avvicinato tramite un comune amico e, davanti a una birra, avevamo cominciato a parlare di malapolitica e ipoclorito di sodio, di reazioni chimiche e materia organica in putrefazione, di questioni e problemi che sono ancora lì, a galleggiare in un pantano di connivenze e rassegnazione. Ne avevamo parlato per giorni, lui passava nel pomeriggio e poi tornava la sera, faceva discorsi mai banali ed era uno stimolo costante a provare a capire, ad andare avanti oltre la superficie. Poi l’estate era passata e lui era ripartito, non so nemmeno alla volta di quale città del Nord, come tanti che ogni anno rinnovano l’esodo triste e necessario dai paesi dell’entroterra verso anonime e brulicanti città lontane.

Forse quest’anno la discesa e poi l’esodo saranno per la prima volta interrotti dalla pandemia e dalle chiusure, le abusate chiusure che sembrano essere l’unica soluzione che chi governa sa dare a noialtri succubi e disciplinati cittadini. Di sicuro il chimico conosciuto quell’estate non lo incontrerò quest’anno a Serra, perché lui non c’è più. Si chiamava Alfonso Petragnani, aveva poco più di 60 anni ed è una delle 25 vittime della strage che il Covid-19 ha fatto nella Rsa “Domus Aurea” di Chiaravalle. Non so niente di lui, non so niente della sua vita e non sapevo che fosse in quella struttura a dieci minuti da casa mia. Ma da quando ho scoperto che era lì ed è poi morto non riesco a non pensarci ogni giorno. Penso a lui e a quelle altre 24 persone che non conosco, che qualcuno chiama “nonnini” e che sono finite per essere un numero, una tacca da aggiungere a un bilancio devastante e accettato da tutti come fosse la normalità. Anzi, la «nuova normalità», come l’ha chiamata un “governatore” di una delle Regioni del ricco e avanzato Nord in cui c’è perfino chi si bea per aver gestito bene una carneficina.

La “normalità” di prima del Covid mi ha sempre fatto una certa paura ma questa “nuova” condizione di stabile precarietà e di compressione della libertà, in cui vedo emergere grande voglia di delazione e di repressione sempre e solo verso chi sta ai margini, è di una disumanità che mi terrorizza. Siamo pronti a fare gli sceriffi verso un runner o un passeggiatore solitario ma consentiamo che sotto i nostri occhi si consumi una strage di indifferenza nei nuovi ghetti delle Rsa. Siamo pronti a ripetere all’infinito il mantra dell’osservare le regole restando a casa, ma non ci ribelliamo e non chiediamo verità e giustizia se ogni giorno una goccia di morte si aggiunge al mare della vergogna che ha inondato queste strutture, che davano un ricovero a tante persone e anche un lavoro a tante altre che di loro si prendevano cura.

Se è questa la “nuova normalità”, se siamo pronti ad accettare che ciò avvenga e venga percepito come una sorta di danno collaterale, quasi inevitabile, se siamo pronti a piegarci alla logica secondo cui è più importante produrre che tutelare la salute di chi lavora per produrre, allora c’è poco da stare sereni guardando all’agognata “riapertura”. Ci accorgeremo nostro malgrado che i morti non sono numeri e che, forse, il maledetto virus non è il più grave dei nostri problemi.

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