Mercoledì, 01 Gennaio 2020 11:43

Storia di Capodanno. La strina, la juovina e l’ambiguità dei doni

Scritto da Tonino Ceravolo
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Particolare di una foto di Fernando Callà Particolare di una foto di Fernando Callà

Timeo Danaos et dona ferentes, è quanto Virgilio mette in bocca a Laocoonte nell’Eneide (II, 49) il quale pronuncia l’espressione, diventata proverbiale, con l’intento di convincere i Troiani a non ricevere il ferale cavallo che nel progetto dell’astuto Ulisse sarebbe finalmente servito, dopo dieci anni di inutile assedio, per espugnare la città. “Temo i Greci, anche [e potremmo aggiungere soprattutto] se portano doni” è una frase che, guardata da un diverso angolo visuale, dice del pericolo associato a tale pratica: il dono può avere un sottofondo inquietante, essere una maschera imbellettata che nasconde un volto minaccioso. D’altronde, non è un caso se le indagini paremiologiche e la memoria locale, sia di area calabrese sia di area siciliana, hanno consegnato un proverbio in cui si raccomanda di stare in guardia quando il diavolo accarizza (o alliscia), perché è segno che vuole impadronirsi dell’anima: il diavolo esibisce la propria autentica natura pericolosa nel momento in cui si presenta come seduttivo, non quando fa la faccia feroce. È dal diavolo tentatore, come raccontano anche i celebri episodi evangelici, che occorre innanzitutto difendersi. E cosa c’è di più seduttivo di un bel dono? La sua “gratuità”, il fatto di dover presupporre nell’atto del donare il desiderio di stabilire un legame positivo, difficilmente possono rendere sospetta una qualsiasi donazione. Si dona perché si vuole creare una relazione solidale con l’altro, anche se il dono, per certi aspetti, implica una sorta di superiorità in chi dona, a cui corrisponde, si pensi agli studi di Marcel Mauss su alcune società amerinde, l’obbligatorietà del ricevere, l’impossibilità di rifiutare il dono e, in un momento ulteriore, la necessità del contraccambiare. Nel senso fatto intravedere dagli studi etnologici di Mauss il dono ha una valenza positiva: fonda il legame sociale, postula la reciprocità tra i membri di una medesima società. Da tale punto di vista, non solo non è un pericolo, ma è indispensabile perché sorga uno scambio reciproco.

A questa articolata fenomenologia del dono fornisce il proprio contributo pure una tradizione chiaramente documentata nel ciclo festivo dei cosiddetti “dodici giorni”, il periodo - che va dal 24 dicembre all’Epifania e che rappresenta un tempo magico - nel quale, secondo le culture popolari, si producono prodigi sconosciuti agli altri periodi dell’anno: gli animali riacquistano il linguaggio, dai fiumi scorre olio e dalle fontane miele, gli oggetti quotidiani si tramutano, per una repentina e provvisoria metamorfosi, in oro e perle. Tempus per eccellenza, tempo sacro, tempo di doni quello dei “dodici giorni”, in cui Capodanno si inserisce con una propria, specifica, tradizione - l’usanza della strina - registrata in diverse parti della Calabria, compresa Serra San Bruno. Nel passato a Serra, i bambini, muniti di gurzidhu (un sacchetto con funzione di salvadanaio, quasi sempre di raso bianco e legato al collo), il giorno di Capodanno dovevano prendere un grossa pietra e con questa bussare alla casa dei parenti dicendo: «Tant’uoru mu vi trasa l’annu, facitindi di strina ch’è Capudannu». Questo presupponeva che i bambini si comportassero bene perché, altrimenti, sarebbe scesa dal camino la juovina (una vecchia simile a una befana malefica) per impadronirsi della strina. Rispetto a quanto prima riportato ci troviamo, come si può vedere, dinanzi a un diverso caso. Nell’esempio serrese il dono perde un po’ della sua gratuità e diventa qualcosa che bisogna meritarsi, tanto che l’atto della donazione è esposto al rischio della revoca. Il dono dato può diventare un dono sottratto e si entra in un sistema merito/ricompensa, premio/punizione che introduce un ulteriore elemento nella tipologia di questo particolare istituto culturale.

Alla consuetudine della strina si aggiungevano in diverse parti della Calabria, secondo Vincenzo Dorsa (si veda La tradizione greco-latina negli usi e nelle credenze della Calabria citeriore, Cosenza, Migliaccio, 1876), anche suoni e canti di vario tipo. Infatti, tra le tante forme di messaggio augurale «primeggiava la strena, dono speciale che traeva origine dal culto sabino, consistente in ramoscelli di alloro e di ulivo. Il Calabrese in omaggio all’antica tradizione inaugura anch’egli con regali agli amici il capodanno; ed ha pure la sua strina, che è o un donativo di danaro che fa il padrone ai servi e il padre ai figli, o un centone di sentenze augurali che la sera della vigilia della festa egli canta innanzi la casa degli amici o di persone ragguardevoli». Lo strepito prodotto dai mortai e dai tamburi percossi dagli strinari - le comitive di giovani maschi che in alcuni posti andavano a cantare la strina a Capodanno o il giorno dell’Epifania - aveva lo scopo di allontanare le anime dei morti minacciosi e di affermare, mediante questo rito, la vita. In altri termini, a Capodanno e nell’Epifania quella che si ingaggiava era anche una lotta della vita contro la morte, ma se questo avveniva era perché in questo periodo dell’anno, come a Pentecoste e a Ognissanti, le anime dei defunti si riteneva vagassero pericolose nello spazio dei vivi. E allora i suoni e le esplosioni che accompagnavano la strina ricoprivano una funzione, di fatto, apotropaica ed esorcistica: espellevano i morti pericolosi e tracciavano una sorta di recinto protettivo a difesa dei vivi. Quando la notte di Capodanno si riempie di luci e del rumore dei botti è anche di questo che dovremmo ricordarci, di un rito antico, che in quel momento stiamo celebrando, in cui la vita altro non vuole che affermare se stessa.

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