Il Vizzarro.it - quotidiano online
Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Il caso di Oppido Mamertina, seguito poi da quello di San Procopio, è finito al centro delle cronache di tutta Italia. I fatti ormai sono noti: Madonne e Santi in processione sostano e si inchinano davanti alle abitazioni che accolgono vecchi boss costretti ai domiciliari, e come per fatalità, per la prima volta – è proprio il caso di dirlo – grazie a Dio, il mondo inizia a condannare riti e rituali che fino ad ora si era semplicemente limitato ad osservare. Poi, ieri, una nuova polemica. Questa volta a mettersi di “traverso” è la Chiesa: la storica processione della Madonna del Carmine a Vibo Valentia, che si sarebbe dovuta svolgere per le vie del centro storico della città, viene annullata. Lo stop preventivo è arrivato dalla parrocchia della stessa Chiesa del Carmine, di concerto con la Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, in seguito alle determinazioni assunte dal Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza.
Polizia e carabinieri per diversi giorni hanno sottoposto al vaglio i nominativi dei “portatori della statua della Madonna del Carmelo”. Fra di loro – evidenziano le forze dell’ordine – vi sarebbero diversi soggetti vicini ad ambienti criminali. Da qui il passo è breve: «Misure straordinarie – si è detto – per il “commissariamento” della processione». Proprio così, commissariamento, come avviene per i Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa in cui gli amministratori voluti dal popolo vengono sostituiti da altri scelti dal governo, in analogia (tornando al sacro) con quanto accadde già nelle ultime festività pasquali a Stefanaconi, quando le statue vennero portate in spalla dai ragazzi della Protezione civile.
A Vibo, il Prefetto aveva piuttosto suggerito alle autorità religiose di far trasportare la Madonna su un furgoncino guidato da un rappresentante della Protezione civile. Misura, però, risultata non gradita. A “controindignarsi” questa volta è stata proprio la parrocchia del Carmine di Vibo, che, contrariata dalla sola idea di vedere la statua della Vergine recata in processione da qualcos’altro o da qualcun’altro che non siano gli abituali e più noti portantini – secondo gli inquirenti «vicini alla cosca di 'ndrangheta dei Lo Bianco» – dichiara, addirittura, l’annullamento della cerimonia, una delle più sentite e seguite del capoluogo. In definitiva, il rito è dunque saltato. In chiesa, in serata, si è celebrata la messa, nella piazzetta del Carmine si sono tenuti i festeggiamenti civili. Alle pareti ancora resiste un piccolo manifesto affisso prima della contesa per indicare il percorso che avrebbe dovuto seguire la processione.
L'astinenza da corteo a cui la diocesi ci condanna, il vuoto che questa probabilmente genera, soprattutto, nello stomaco dei fedeli, non può di certo risultare più insopportabile di una manciata di pezzenti che si inchinano al cospetto del boss. Ma l’idea di rifiutare anche il camion guidato dal referente della Protezione civile non è di certo un atto di giustizia. Si tratta, anzi, di un provvedimento che lascia la sensazione che nulla di coraggioso sia stato fatto per arginare il problema. O che, comunque, nulla sia stato fatto per restituire realmente la Madonna ai credenti evitando di tenerla ostaggio di una valenza “culturale” del tutto distorta, che si nutre di “inchini”, metafore e simboli emblematici. Così si è finito per negare la processione a tutti, anche a chi ripudia la mafia ed intende piegarsi solo ai piedi della stessa Madonna in segno di reale venerazione religiosa.
Siamo invasi dalla retorica ridondante di chi si scaglia contro la «non giusta considerazione della bella e ospitale Calabria», ma mai, stranamente, ci si chiede dove abbia poi condotto tanta eloquenza nel decantare una terra spacciata, solamente, per pura e genuina. Sarebbe molto più proficuo, forse, se gli assertori di tanta magnificenza – quelli che in genere si rifugiano nelle formule dei «meravigliosi mari e montagne», del bergamotto reggino e della ‘nduja di Spilinga – prendessero davvero posizione di fronte ad un declino, soprattutto culturale, di cui non si può più tacere. Indichino soluzioni tangibili e percorribili e non frutti impuri della peggiore ipocrisia. Perché altrimenti questa terra, già socialmente ed economicamente fragile, rischia di affondare definitivamente per i troppi inchini.
Per questo soprattutto la Chiesa, pregna di intellettualismo elitario, di teologi che hanno fatto finta di non accorgersi di questa involuzione, che sono stati velatamente indulgenti con la capacità della ‘ndrangheta di influenzare anche lo spazio “sacro” delle manifestazioni religiose popolari, adesso sbaglia di grosso se immagina che le processioni possano cambiare rotta e modalità su semplice indicazione del Prefetto di turno o su sospensioni dell’ultimo minuto. Piuttosto, ciò dovrebbe accadere secondo un atto di coraggio che abbia origine soprattutto nella Chiesa stessa, obbligata a farsi carico di un problema che – in troppi casi – essa stessa ha contribuito a generare per mera e timorosa compiacenza. Per comodità e quieto vivere. L’inchino al cospetto dei “notabili” e dei “potenti”, il togliersi il cappello davanti al boss, è un atto di soggezione che la Calabria deve ripudiare con forza e non sfuggire timorosamente per decreto.
L’asserzione del titolo può sembrare una boutade o anche un’iperbole eppure il primo libro di Carmine Abate (se si eccettua una raccolta di versi) è stato proprio un’interessante saggio sul mondo dell’emigrazione calabrese scritto a quattro mani con la moglie Meike Behrmann e apparso in Germania per i tipi di Campus Verlag corredato da un prestigioso saggio di Norbert Elias. Il libro pubblicato in Italia con il titolo “I Germanesi” nel 1986 (Pellegrini) è stato di recente riproposto in coedizione da Rubbettino e Ilisso nella collana “Scrittori di Calabria”.
Ma perché tanta attenzione a questo saggio?
Perché contiene già i temi cari a Carmine Abate: la vita e i rapporti sociali all’interno delle piccole comunità rurali, l’emigrazione, il mondo Arbereshe, la difficile identità “di frontiera” degli emigrati, specie di quelli Albanesi costretti a un duplice processo di sradicamento e riadattamento non sempre facile a nuovi contesti culturali...
Frutto di una lunga ricerca sul campo, svolta in parte in Germania e in parte in Italia dal 1978 al 1982, il libro racconta la vita di una comunità e dei suoi abitanti. Il paese preso in esame è Carfizzi, paese natale dello scrittore, in provincia di Crotone, dove vive una delle numerose comunità Arbereshe della Calabria. Uno dei punti cardine del volume è l’analisi dei rapporti tra i membri della comunità e un gruppo di compaesani emigrati in Germania (i germanesi, appunto). Rispetto ad altri lavori sull’emigrazione qui la prospettiva è completamente rovesciata: non si studiano tanto le implicazioni dell’emigrazione ma i mutamenti sociali che questa ha creato partendo proprio dai rapporti con la comunità d’origine.
Un libro dunque di grande interesse, forse finora poco letto e conosciuto, ma che gli estimatori del narratore calabrese dovrebbero certamente leggere per comprenderne a fondo l’opera e gli orizzonti culturali.
Antonio Cavallaro
(ufficio stampa Rubbettino editore)
Tra due mari: una striscia di terra di nome Calabria. Una regione dalla quale attraverso i numerosissimi balconi montani si può godere dell’aria buona contemplando il mare, o viceversa, dai davanzali costieri, si può assaporare la montagna, impellente desiderio mentre il corpo si nutre a dismisura del Sole più bello d’Italia. Tra due mari è una grandissima opera letteraria di Carmine Abate, con la quale è stata tracciata la storia di un uomo, Giorgio Bellusci natio di Roccalba, che come tanti altri romantici ha speso tutte le forze per farsi una vita in Calabria, la sua terra, caro scrigno di sogni e di affetti. Fiero narratore delle peripezie di questo grande uomo é il nipote Florian.
Giorgio Bellusci è bambino indomito e adulto determinato. All’età di 22 anni abbandona la propria casa per raggiungere l’amore della sua vita, Patrizia, una ragazza barese conosciuta qualche estate prima a Camigliatello, dove il Bellusci soleva soggiornare coi propri bovini durante il periodo della transumanza.
Ci troviamo nel secondo dopoguerra. In estate, durante il viaggio in direzione di Bari, a Giorgio Bellusci succede un fatto inaspettato, e che per certi versi della bella Calabria ne definisce ulteriori e per niente elogiabili sfaccettature: così, giunto nella piana di Sibari, mentre dà sfogo alle proprie abluzioni corporee, Giorgio Bellusci sente il motore acceso della sua vespa. Dei furfanti gliel’avevano rubata.
Tornare indietro non è da lui. Aveva fatto una scelta e avrebbe continuato per la strada intrapresa. E poi non sarebbe stato facile affrontare le persone di Roccalba. Si sa come vanno le cose in un piccolo paese: tutti gli avrebbero dato addosso, accusandolo di codardia per non essere riuscito nel suo intento. Della famiglia gli importava poco, perché egli stesso sosteneva che non riuscivano a capirlo. L’unico suo rimpianto era il Fondaco del Fico, il fondo di famiglia dove una volta sorgeva la vecchia locanda appartenuta al padre, al nonno e al bisnonno, e che fu dimora per una notte anche di Jadin e Dumas, i quali in quella locanda ci lasciarono un disegno della famiglia Bellusci e un diario che riportava alcuni appunti di viaggio.
Senza un mezzo per poter proseguire, Giorgio Bellusci si accascia per riposarsi e si risveglia con accanto un cane randagio che gli farà da compagno e che battezzerà col nome di Milord (che non a caso, fu anche il nome del cane di Jadin e Dumas durante il loro soggiorno calabrese). In preda all’ira per il fatto di non trovare più la giusta strada, il Bellusci si mette a correre come un matto e quasi rischia la vita quando un’auto, dopo una brusca frenata, gli si ferma davanti. Alla guida c’è Hans Heumann, un famoso fotografo tedesco giunto in Calabria «in cerca di luce».
I due fanno subito amicizia e Hans Heumann promette di portare Giorgio Bellusci a Bari se lo stesso gli avesse prima fatto da guida durante la ricerca di soggetti da fotografare. E dopo che l’affascinante quanto suggestiva Calabria fu impressionata sulle famose pellicole del fotografo tedesco, con l’arrivo delle prime piogge la promessa fu mantenuta: giunto il mese di settembre, intenzionato a ripartire per Amburgo, Heumann accompagna il suo nuovo amico prima a Bari dalla sua bella Patrizia e poi a Roccalba, dove alla vista del Fodaco del Fico rinasce nel Bellusci la voglia di ricostruire la vecchia locanda di famiglia. Voglia mossa da quel pressante pensiero che pure nel sonno lo assillava. L’immensa luce che emanava Giorgio Bellusci nell’esprimere quel desiderio non sfuggì all’occhio attento del bravo fotografo, il quale non perse tempo per scattare l’ultima foto del suo tour calabrese.
Comincia così la grande amicizia dell’allevatore e dell’artista, unione che sarà in futuro rafforzata dal loro rapporto di parentela: il narratore, cioè Florian (che di cognome fa Heumann) sarà infatti il frutto dell’unione tra il figlio di Hans e la figlia di Giorgio.
A Roccalba va a viverci anche Patrizia per amore del Bellusci, il quale oramai non può fare più a meno del Fondaco del Fico.
La determinazione dell’uomo risulta sempre fondamentale e il determinato Bellusci passa così dal sogno alla realtà quando incarica il «migliore ingegnere della zona» a realizzare il progetto per i lavori del Fondaco del Fico.
Un giorno però, Giorgio Bellusci riceve un’inaspettata visita presso la propria macelleria all’orario di chiusura. Un giovane ben vestito scende da un’auto, si dirige verso di lui e lo saluta con fare altero: «Buongiorno capo. Come và?». Lo stesso, incitando il Bellusci a progredire sempre nella sua attività continua nel dirgli: «Avrete la nostra benedizione, la nostra protezione. Pagherete una piccola percentuale l’ultima domenica di ogni mese. Passo io a ritirare la pila. Non dovete preoccuparvi di nulla». Al ché, il primo istinto di Giorgio Bellusci lo porta a minacciare l’avventore col suo coltellaccio da macellaio.
Comincia da questo momento una storia nella storia. Carmine Abate, attraverso la voce narrante di Florian Heumann, ci descrive il Fondaco del Fico non più come espediente per la realizzazione di un sogno, bensì come giusta causa per sconfiggere un incubo rappresentato dalla malavita.
Giorgio Bellusci subisce così diversi attentati, dimostrandosi completamente sordo alle richieste fattegli dai mafiosi. In primo luogo i malavitosi appiccheranno fuoco alla porta della macelleria e la reazione del Bellusci sarà quella di non preoccuparsene perché a suo dire era troppo vecchia e in ogni caso andava cambiata. Dopo gli taglieranno le viti e, con immenso autocontrollo il Bellusci dirà: «Meglio, così ho meno da lavorare». In ultimo, i mandriani lo informeranno di aver trovato 2 cani e 10 pecore sgozzate, che tempestivamente verranno esposte nella macelleria a basso mercato e subito vendute grazie alla solidarietà dimostrata dagli abitanti di Roccalba.
Ma la pazienza ha un limite. Nonostante il Bellusci abbia voluto dimostrare a tutti che si deve agire come se la ’Ndrangheta non esistesse, nel momento in cui l’esattore malavitoso si ripresenta nuovamente per riscuotere "il pizzo", lo infilza al collo con un gancio da macellaio e lo appende in bella mostra all’interno della macelleria.
Finisco col dire che, giunti a questo punto, ogni altra parola spesa a riguardo sarebbe un inutile tassello messo a completamento della sublime narrazione di Carmine Abate, che qui mi risparmio di aggiungere per lasciarvi l’occasione di gustare un libro straordinario che vi coinvolgerà totalmente.
Ancora una pesante intimidazione ai danni della Cooper Poro Edile, un'azienda di Rombiolo che da tempo è nel mirino della criminalità organizzata. Nell notte tra domenica e lundì, intorno alle 3, ignoti hanno collocato una corona funebre davanti al cancello della sede dell'azienda, sito nell'area industriale di Rombiolo. Sul posto sono intervenuti i carabinieri della locale stazione guidati dal maresciallo Carmine Pica che hanno dato avvio alle indagini. L'ultimo atto intimidatorio in ordine di tempo risale al 23 gennaio scorso, quando furono sparati dei colpi di contro il portone dell'abitazione di Antonio Pata, presidente della Cooper Poro Edile.
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