Sabato, 23 Marzo 2024 09:19

A chi importava delle ferriere? Il “mito” di Mongiana e le colpe dei notabili calabresi/1

Scritto da Francesco Barreca
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Il portale della fonderia (foto tratta dal sito web del Mufar: museorealiferrieremongiana.it) Il portale della fonderia (foto tratta dal sito web del Mufar: museorealiferrieremongiana.it)

“Mi rivolgo poi all’onorevole ministro dell’Interno e gli fo osservare che vicino a questa Mongiana e ad Agnana c’è la Serra di San Bruno; egli deve conoscerla per gli ultimi fatti; c’è una gente armigera, gente di montagna, che lavora benissimo a martello i fucili, che lavora pugnali e tutti gli istrumenti i quali possono servire in qualche occasione. Io vorrei che non si abbandonasse quella popolazione, perché, stando nel circolo delle montagne calabresi, non avendo territorio, non vivono che di questo lavoro. Chi faceva carabine, chi trasformava minerale, chi era adatto alla fusione e simili. È una popolazione robusta, la quale, abbandonata, pare che non sia contenta della sua posizione; perciò i mestatori trovano in essa qualche seguace.”

A pronunciare queste parole è Agostino Plutino, deputato di Reggio Calabria, nel corso della seduta parlamentare del 23 maggio 1870. Siamo a Firenze, capitale provvisoria del Regno d’Italia, e l’argomento di discussione, sollevato dall’onorevole Mariano D’Ayala, è il futuro delle ferriere di Mongiana, che il ministero delle Finanze, presieduto da Quintino Sella, intende vendere, affittare o in alternativa chiudere definitivamente. Dopo aver ascoltato le ragioni del ministro – cioè che lo Stato non può farsi carico di un’impresa che registra ogni anno passivi di bilancio per centinaia di migliaia di lire e la cui produzione è scarsa e di qualità mediocre –, Plutino si gioca la sua ultima, disperata carta: lo Stato deve mantenere operative le ferriere per una questione di ordine pubblico. Quella gente, dice Plutino cercando di solleticare nei suoi onorevoli colleghi l’immagine del calabrese “selvaggio d’Europa,” è pericolosa. Dio solo sa cosa potrebbe fare una volta privata della sua principale fonte di sostentamento. Nel momento in cui Plutino, a Firenze, evoca in lo spettro della rivolta e l’ombra del brigantaggio, a Mongiana la produzione è ferma. Non lavorano i minatori di Pazzano, i bovari e i carbonieri di Serra; non lavorano gli operai delle fonderie e della fabbrica d’armi, né i falegnami, i ferraioli, i manovali. A gestire le Reali ferriere ed officine di Mongiana ci sono solo quattro persone: il direttore reggente, un segretario, un ragioniere e un inserviente.

Per la comunità delle Serre, il declino, la vendita e la definitiva chiusura delle ferriere di Mongiana avvenuti tra il 1861 e 1881 sono uno di quegli eventi cruciali a proposito dei quali viene naturale chiedersi “cosa sarebbe successo se” e intorno ai quali sono state costruite mitologie e ideologie, sono stati alimentati rancori e frustrazioni, si sono accampate giustificazioni e rivendicazioni. E se appare chiaro che la fine di Mongiana fu in primo luogo determinata dalla politica economica dei governi postunitari, che da un lato disimpegnarono lo Stato dalla gestione diretta delle industrie siderurgiche e dall’altro individuarono altrove, al centro-nord, dove già esisteva una borghesia industriale con capitali a disposizione, il luogo specifico in cui attuare un programma di industrializzazione nazionale, meno chiaro è invece il ruolo avuto in questo processo dalle classi dirigenti meridionali e dalla politica locale, che nei confronti di Mongiana mantennero un atteggiamento oscillante tra indifferenza, approvazione dell’operato del Governo, pigro passacartismo e sostegno di facciata alle istanze dei lavoratori. Il destino delle ferriere fu questione davvero nazionale ma, come ancora oggi spesso accade, le questioni nazionali calabresi in Calabria vengono affrontate da prospettive locali, restando così invischiate in un’ineffettuale rete di interessi e lealtà provinciali, comunali, sub-comunali. Sottovalutare questo fatto, ovvero la circostanza che, se le elite del nord non avevano ovviamente alcun interesse a investire in una “periferia della periferia” quale era considerata Mongiana, pure i politici locali non è che perdettero il sonno di fronte allo smantellamento della principale realtà economica delle Serre che avveniva sotto i loro occhi, conduce inevitabilmente alle opposte mitologie, a fare di Mongiana qualcosa che Mongiana non fu mai e a immaginarla come qualcosa che non sarebbe mai potuta essere. Evitare di scadere nella mitologia non è soltanto questione di rigore storico, ma è necessario per comprendere quanto accade oggi, da dove nasce e come si è cristallizzata la depressione economica e sociale delle aree interne della Calabria, la parte in questo avuta da chi la Calabria l’ha amministrata e l’amministra. Per far ciò, è necessario prima di tutto tornare al principio, cercare di capire cos’era Mongiana quando fu “ereditata” dal neonato Regno d’Italia.

Il complesso siderurgico di Mongiana-Ferdinandea, comprendente tre altiforni e una fabbrica d’armi a Mongiana, un altoforno a Ferdinandea e la miniera del monte Stella nei pressi di Pazzano, aveva caratteristiche peculiari che la rendevano quasi unica nel panorama delle industrie nazionali. Il minerale lavorato era esclusivamente quello estratto dalle miniere di Pazzano, mentre come combustibile si utilizzava soltanto carbone di legna proveniente dai boschi locali. Lo stabilimento aveva sempre lavorato su commesse statali in regime di monopolio e a prezzi convenuti, impiegando perlopiù lavoratori a cottimo a tariffe prestabilite. Il personale dipendente era costituito da una sessantina di dirigenti tecnici, impiegati amministrativi, sorveglianti, magazzinieri e facchini generalmente provenienti dai quadri dell’esercito, i quali rispondevano al direttore, di solito un ufficiale di artiglieria che, fino al 1862, svolgeva anche le funzioni di “sindaco” del comune di Mongiana. La stragrande maggioranza della forza lavoro impiegata tra Mongiana, Ferdinandea e Pazzano – non meno di 500 persone, che potevano arrivare fino a 1500 quando la mole di lavoro lo richiedeva – era costituita da lavoratori pagati a giornata o a cottimo. Prima dell’Unità molti di loro, soprattutto quelli della miniera e i mulattieri, erano “filiati,” vale a dire giovani che, in cambio dell’esonero dall’effettivo servizio di leva, si obbligavano a lavorare per almeno dieci anni al servizio delle ferriere, rimanendo comunque soggetti alla disciplina militare. La retribuzione dei lavoratori a giornata oscillava in funzione dell’età tra le 0,40 Lire al giorno (equivalenti, come potere d’acquisto, a poco più di 2 euro attuali) pagate ai minori di 13 anni e le 1,30 (6,74 euro) riconosciute a chi aveva più di 24 anni. Per avere un termine di confronto, nello stesso periodo gli operai della fabbrica d’armi di Torre Annunziata percepivano quasi il triplo (da 1 a 3 Lire al giorno). Operai specializzati e artieri capaci guadagnavano tra le 0,20 (1,04 euro) e le 0,26 Lire (1,35 euro) l’ora; i loro assistenti circa la metà. Gli addetti agli altiforni venivano invece pagati a cottimo, con tariffe variabili tra 0,56 (2,91 euro) e 0,71 Lire (3,68 euro) al quintale di pani di ghisa.

Per l’approvvigionamento del carbone ci si affidava a squadre di carbonieri locali. Ciascuna squadra era agli ordini del capo carboniere, che veniva pagato a giornata dall’amministrazione delle ferriere e in più riteneva una percentuale sul carbone consegnato. Il capo carboniere si occupava del reclutamento e degli anticipi sulle paghe di mannesi, carbonieri, bovari e mulattieri, dell’organizzazione del lavoro e della gestione del trasporto. La produzione del carbone s’iniziava nel periodo del “sugo fermo” (settembre) e proseguiva fino a dicembre; riprendeva poi allo sciogliersi delle nevi e si concludeva a fine giugno, poiché per legge era vietata la produzione di carbone nei mesi di luglio e agosto a causa dell’elevato rischio di incendi. Le piante da tagliare venivano di volta in volta decise di comune accordo dalle autorità forestali e dalla direzione delle ferriere ed erano affidate ai capi carbonieri, i quali, a loro volta, le ripartivano tra i lavoranti al loro servizio. I processi lavorativi non erano regolati se non dalla tradizione: gli alberi selezionati venivano tagliati con l’ascia a circa mezzo metro d’altezza, preservando radici e ceppaie, e i tronchi poi ulteriormente sezionati in assi di un’ottantina di centimetri (tropelli). Questo, se da un lato aveva il vantaggio di permettere la naturale riproduzione delle piante, dall’altro assecondava una generale incuria del bosco e limitava l’interesse a definire programmi di gestione forestale a medio-lungo termine che ne migliorassero salute e produttività. Inoltre, i mannesi, pagati a cottimo, si preoccupavano soprattutto di raggiungere il maggior peso nel minor tempo possibile, così nel sezionare i tronchi v’era in genere un significativo spreco di legname in schegge. Se non si poteva procedere immediatamente alla costruzione dello scarazzo la legna restava in terra e le giornate non venivano pagate. Il saldo da parte delle ferriere avveniva “a magazzino”, cioè a carbone consegnato, e negli anni immediatamente successivi all’Unità si aggirava intorno alle 2,90 Lire al quintale (equivalenti all’incirca 15 euro attuali). Per i carbonieri a cottimo la tariffa stabilita era di una Lira a quintale (poco più di 5 euro), per mulattieri e bovari qualcosa in meno. Per quanto riguarda la materia prima, il minerale (composto principalmente da limonite) veniva estratto dalla miniera del monte Stella. I minatori, provenienti tutti da Pazzano e pagati a cottimo, lavoravano sotto la supervisione dell’ufficiale direttore della miniera e di quattro capi-galleria. La giornata lavorativa era fissata in otto ore (dieci per gli operai delle fonderie e delle officine). L’estrazione avveniva a piccone o con mazza e scalpello non appena individuato il banco e scavate le gallerie di allungamento, senza preparare un vero e proprio campo di coltivazione. Il minerale così estratto era portato con carrettini a mano fino al piazzale, dove non si operava una selezione accurata ma ci si limitava a separare la parte compatta dalla sfranta.  Infine, il tutto veniva trasportato, senza previa torrefazione, a Ferdinandea e a Mongiana a dorso di mulo, essendo, per la maggior parte, i sentieri non carrabili. Qui si iniziava la produzione di ghisa e, a partire da quest’ultima, di ferro. A Mongiana, nel caso della ghisa, a normale regime di lavoro per un solo forno venivano occupate 15 persone: un guarda-forni, 2 guarda-fuochi, 2 aiuti, 2 operai esperti e 8 manovali. Qualora si utilizzasse contemporaneamente anche un secondo forno, a questi si aggiungevano altri 2 operai e 8 manovali. La messa in fuoco durava una ventina di giorni. La produzione giornaliera era in media di 45 quintali, mentre la resa del minerale si assestava tra il 44 e il 48%, di poco inferiore a quella del minerale estratto all’isola d’Elba e utilizzato negli stabilimenti della Maremma Livornese. Il consumo di carbone era però molto più alto: in media 1,90 quintali per quintale di ghisa (nella Maremma Livornese la media era di 1,20), con picchi di addirittura 5 quintali nel 1856. Il prodotto finito si mandava a Pizzo a schiena di mulo, dove lo stabilimento aveva un magazzino di stoccaggio, e poi via nave alla fabbrica d’armi di Torre Annunziata per essere lavorato. Una parte rimaneva in sito a Mongiana per essere lavorata nella fabbrica d’armi o smerciata ai mastri ferraioli dei dintorni per il commercio locale. Da diversi anni, però, ovvero da quando, in seguito all’Unità, era passata sotto l’amministrazione del Regio Esercito, la fabbrica di Torre Annunziata andava progressivamente riducendo le commesse e si affidava sempre più al metallo prodotto in Val d’Aosta, giudicato più economico e di qualità migliore. Dunque, all’indomani dell’Unità lo stabilimento di Mongiana-Ferdinandea soffriva (come peraltro la maggior parte degli stabilimenti italiani), di problemi di efficienza, sostenibilità, produttività e qualità del prodotto dovuti principalmente a un modello di produzione ancora in larga parte fondato sulla consuetudine. Già i tecnici borbonici avevano individuato in una serie di difetti nei metodi di produzione (scarsa selezione del materiale, letto di fusione preparato “a occhio”, vento mal regolato ecc.) le cause principali dell’elevato consumo di carbone e della non uniforme qualità del prodotto. Nel 1846 Pietro Presti, capitano dell’esercito del Regno delle Due Sicilie, dopo aver analizzato il minerale proveniente da Pazzano, sosteneva, in una memoria, la necessità della torrefazione. Nel commentare e condividere questa conclusione, il Tenente Colonello Antonio de Focatiis sottolineava, in generale, i problemi produttivi dello stabilimento:


“Il nostro minerale è ottimo: perché mai, ad oltranza di ogni legge, ne dà ferri cattivi? Il nostro mineral’è ubertoso: perché fornisce scarsi prodotti? Il trattamento preliminar’è pessimo; del pari è quello all’alto-forno. Migliorando ambo i processi, i nostri prodotti sarebbero, e più ricchi, e meglio condizionati. Or tra’ miglioramenti, certo v’ha la scelta del fondente. Ma come determinarlo? Come conoscere quali terre è d’uopo addizionare, senza analizzare le diverse varietà di cotesto minerale? Noi ignoriamo onninamente la sua costituzione chimica […]. D’altronde n’è noto il titolo di quel combustibile in carbonio? Sappiam noi regolare in Mongiana le macchine soffianti in rispetto al minerale, ed al carbone, da ottenere simultaneamente la deossidazione del minerale e la elevazione della temperatura del forno? Le parti costitutive di quegli alti-forni son desse mai in rapporto col minerale, col carbone, e co’ fondenti? Tutto è bujo! Tutto oprato all’azzardo!! Ella è questa verità troppo umiliante, che a nostro malgrado è forza confessare.”

Questa situazione era aggravata dall’arretratezza della rete infrastrutturale e da una gestione amministrativa e contabile non esattamente cristallina. Malcostume, sufficienza e vere e proprie frodi erano all’ordine del giorno. Nel maggio del 1865 l’ingegnere livornese Enrico Grabau, inviato dal ministro Sella per riorganizzare l’amministrazione dello stabilimento, fu aggredito a colpi di fucile da un personaggio al quale lo stabilimento pagava le giornate senza che egli prestasse effettivamente la sua opera. I proprietari privati di boschi, il cui contributo sarebbe stato necessario per aumentare la produzione di combustibile e di conseguenza la produttività delle ferriere, non volevano fare affari con lo stabilimento perché il pagamento a magazzino, unito all’esternalizzazione dell’approvvigionamento di carbone, li esponeva alle frodi (per questo motivo, una delle misure proposte dalla commissione governativa per risollevare lo stabilimento era di internalizzare la produzione del carbone affidandola a carbonieri assunti dall’autorità forestale). Su una parte rilevante dei boschi stessi, inoltre, gravavano promiscuità e usurpazioni che avevano fatto sorgere, già dal 1811, controversie legali coi comuni di Serra e Spadola. Data questa situazione, è facile comprendere perché, nell’ambito della politica di dismissione delle industrie siderurgiche di proprietà dello Stato, il destino di Mongiana fosse segnato. 1/continua

Ferriere, un “mito” in declino mentre la politica (locale) pensava ai proprietari terrieri

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