Venerdì, 20 Novembre 2020 13:08

Maria è il nome dell’ultima spiaggia nella Nardodipace che lotta con l’epidemia

Scritto da Tonino Ceravolo
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Foto di Salvatore Federico Foto di Salvatore Federico

Se non ci fosse la preoccupazione di evitare la retorica bisognerebbe tirare in ballo Carlo Levi e il suo Cristo si è fermato a Eboli o ricordare la passione civile di Sharo Gambino, che tra la “perduta gente” di Cassari e Ragonà si fece maestro, missionario, medico, compagno di strada. Bisognerebbe, di nuovo, elevare quel grido di dolore per le periferie, i margini, le montagne, le zone interne, abbandonate, trascurate, non considerate pienamente degne del consorzio umano, se da alcuni luoghi giungono notizie che i giornali e le televisioni non riportano e che le statistiche riducono a numeri tra gli altri. È che si vorrebbe capire meglio come sia potuto accadere che nella piccola comunità di Nardodipace i contagi siano esplosi dall’oggi al domani e come sia avvenuto che il rapporto tra il numero dei contagiati e la popolazione sia probabilmente più alto delle vicine Serra San Bruno e Fabrizia, nemmeno esse indenni dal Covid-19.

Vengono in mente, dice un personaggio del geniale vignettista Altan, idee che non si condividono, anche se poi saranno legioni a dire che non è vero che ci sono cittadini di serie A e cittadini di serie B (o C o D o Z), che al contrario si è fatto ogni sforzo, che è capitato pure da altre parti e che forse è un caso che anche lì. E figurarsi se ci si dimentica di qualcuno, se non si hanno a cuore le realtà più periferiche, se, se. O se la dichiarazione del politico di turno non è così ecumenica, preoccupata, partecipe, con il giusto dosaggio tra denuncia e rassicurazione, tra esigenza di tutela della salute e volontà di evitare allarmismi, da lasciare meravigliati per cotanto equilibrio (che altri definirebbe equilibrismo).

Eppure, il grido di dolore c’è, a parlare con gli amici del luogo, a leggere i messaggi whatsapp di altri, ad ascoltare voci che non sono dal sen fuggite, ma voci dalle case, dalle strade, voci di uomini e donne che raccontano la paura, che dicono di parenti con il respiro corto, che accennano a febbri e sintomi forse sfuggiti alle rilevazioni. Così, si vorrebbe chiedere se sono stati fatti i tracciamenti, se si sono isolati i casi e i contatti stretti dei casi, se i tamponi sono arrivati in tempo, se, insomma, quel po’ di medicina territoriale che è ancora rimasta in queste zone è riuscita a porre riparo alla piena o se, non avendo provveduto con gli argini nel momento debito, le acque siano fuoruscite, disperdendosi verso nuovi rivoli. Si vorrebbe anche chiedere dove sono quelli che in tempi diversi sempre ci sono e che, direbbe Franco Costabile, non indugiano a “tornare calabresi”, a farsi popolo, ad annunciare di ascoltare la voce della gente, perché farsi popolo e gente periodicamente ci vuole. Quelli che la responsabilità è sempre degli altri, di chi ha messo l’ultima firma, di chi è arrivato all’ultimo minuto, perché, nel nostro eterno oggi, quello che è accaduto ieri proprio non conta, nella beata smemoratezza nella quale tutti ci crogioliamo, sapendo bene quanti e quali siano i suoi vantaggi, in quel lavacro dello smarrimento della memoria in cui non si capisce più chi ha deciso di chiudere gli ospedali, chi ha smantellato i reparti, chi ha assunto invece che il medico più bravo quello più prossimo, chi, chi. E se qualcuno, pur razionalista e “illuminista”, che da quei luoghi scrive dice “siamo in braccio a Maria” forse sta pronunciando il nome che potrebbe essere l’ultima spiaggia.

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