Lunedì, 12 Dicembre 2022 19:30

Il bosco e il paese

Scritto da Francesco Barreca
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La mappa del bosco Archiforo risalente al 1879 La mappa del bosco Archiforo risalente al 1879

Noi serresi, è risaputo, abbiamo un rapporto tutto particolare con il bosco, simile a quello che i Sama-Bajau hanno col mare o i Tuareg con il deserto. Per secoli, il bosco è stato per noi fonte di sostentamento, rifugio, orizzonte geografico e culturale e però, allo stesso tempo, anche minaccia, prigione, limite e confine. Ancora oggi, quando un’amministrazione comunale si ritrova con le tasche vuote, è al bosco che ci si rivolge in cerca d’aiuto; ancora oggi è il bosco ciò che avvertiamo essere l’autentico nostro patrimonio comunitario. Si tratta di un rapporto insieme simbolico e materiale, così come insieme simbolico e materiale è l’affollamento di abeti, tassi, faggi e castagni monumentali intorno a un paese a sua volta proteso verso un centro mistico e silenzioso, la Certosa.

Si potrebbe anzi dire che Serra e i serresi nascono con il bosco, cioè quando i certosini, appoggiandosi a una presunta donazione effettuata da Ruggero d’Altavilla, rivendicano e si vedono garantito il dominio sui boschi delle serre, sui quali eserciteranno per lungo tempo una severissima signoria feudale. Tra gli obblighi dei serresi nei confronti della Certosa vi sono l’angarìa (l’obbligo di prestazioni lavorative non retribuite), l’adoa (un tributo annuo) e il mantenimento a proprie spese dei mulini del monastero. Per contrasto, a Serra così come negli altri centri della Contea di Stilo il riconoscimento degli usi civici del bosco (il diritto di raccogliere legna secca da ardere, ad esempio, o il diritto di pascolo) avviene relativamente tardi, solo nel 1745, nel pieno della controversia legale intorno alle “vantate carte” della Certosa che oppone quest’ultima alla comunità serrese e si conclude con lo scioglimento delle obbligazioni feudali dei serresi nei confronti dell’autorità certosina. Fino ad allora, come da costume feudale, non vi è differenza giuridica tra il bosco e suoi abitanti, anzi questi ultimi gli sono subordinati e giuridicamente esistono solo perché esiste il bosco. Il riconoscimento degli usi civici rappresenta per i serresi – che ancora nel 1700 lamentavano di essere “trattati da schiavi non che da vassalli” dal Priore della Certosa – non solo il riconoscimento del diritto, spesso usurpato, di trarre di che vivere dal bosco, ma anche e soprattutto il primo passo in direzione del riconoscimento del bosco quale bene della comunità. A determinare definitivamente il corso degli eventi e a instaurare un nuovo rapporto, tanto sociale e culturale quanto istituzionale, tra i serresi e il bosco intervengono, all’inizio dell’Ottocento, due fattori di portata universale: l’eversione della feudalità (1806-1807) e la soppressione napoleonica degli ordini religiosi (1810). Per effetto di questi provvedimenti, nel 1811 si stabilisce che le terre appartenute alla Certosa vengano ripartite tra il Regio Demanio, Serra e Spadola, e se quelle attribuite al Regio Demanio vengono, in seguito alla Restaurazione, restituite al Patrimonio Ecclesiastico Regolare e da questo poi riconcesse in enfiteusi perpetua al Regio Demanio che le gestirà tramite un agente demaniale residente a Mongiana, nel 1834 Serra e Spadola si vedono riconosciute quelle loro assegnate nel 1811, integrate poi, nel 1870, da ulteriori appezzamenti nell'area di Santo Stefano del Bosco. Nel 1811, insomma, Serra e i serresi finalmente ottengono il loro bosco, l’Archiforo.

L’instaurazione di nuovi rapporti giuridici riguardanti il bosco è alla base del considerevole sviluppo dell’artigianato che caratterizza l’Ottocento serrese. La celeberrima maestranza di la Serra raggiunge nella seconda metà dell’Ottocento il punto più alto e luminoso, e i documenti dell’Archivio comunale confermano come questa ascesa avvenga in simbiosi con il bosco. I dati del focatico del 1880 ci forniscono, in tal senso, un quadro eloquente: è il bosco la principale risorsa grazie alla quale i serresi possono sostentarsi e, alcuni di loro, addirittura prosperare. "La Serra – scrive il viaggiatore britannico Henry Gally Knight nel 1838 – è un operoso villaggio artigiano che risuona del rumore di incudini e martelli [...] È questo il luogo più operoso che abbiamo veduto da quando lasciammo Marsiglia."

Popolato di mannesi e taglialegna e carbonai, solcato da bovari che trasportano tronchi, blocchi di granito e carichi di ferro, calpestato da donne con fascine in testa, trapunto di segherie dalle quali escono pezzi pronti per essere lavorati dagli artigiani in paese e fumeggiante di scarazzi che promettono carbone, il bosco è la più grande ricchezza a disposizione di Serra. Come osserva il vicesegretario del ministero dell’Agricoltura Agostino Lunardoni nel 1886, “la popolazione del territorio di Serra San Bruno vive pei boschi e per le industrie che ad essi s’annettono. Dalle terre coltivate e dalla pastorizia essa non trae che i prodotti sufficienti per due mesi. Se un grave incendio od una speculazione disastrosa distruggesse quei boschi, una emigrazione in massa ne sarebbe la dolorosa conseguenza.” E così pure Bruno Maria Tedeschi nella sua monografia su Serra inclusa in Il regno delle due Sicilie descritto e illustrato [...] del 1859: "Serra, non avendo che scarso e sterile territorio, non ha altra risorsa per vivere se non le manifatture e l'industria; ma il principio e lo sviluppo di quesi due rami di economia sono per essa la buona condizione, sine qua non, dei boschi [...] Ora è chiaro, che loro prosperità [dei serresi] dipende essenzialmente da quella dei boschi, la cui distruzione porterebbe seco l'annichilimento dei primi [...]. Ma ciò non è tutto. Serra, non solamente senza boschi non potrebbe sussistere economicamente parlando; ma benanco fisicamente." Dai boschi il Comune ricava la maggior parte delle sue rendite, quindi la loro gestione è la prima e più importante preoccupazione dell’amministrazione comunale.

L’Archiforo e i demani ex-feudali Crifoglietto, Li Castagnari, Arsafia e S. Miceli rappresentano un ingente patrimonio che, in principio, viene gestito con relativa oculatezza. I registri conservati presso l’Archivio comunale attestano come il Comune badi a mantenersi ben al di sotto del limite massimo di tagli previsto dalla Legge e, soprattutto, come la prassi degli usi civici venga indirizzata a fare del bosco quello che oggi chiameremmo uno strumento di welfare. Vengono riconosciuti e garantiti i diritti di legnare e pascere, e ogni anno il Comune assegna gratuitamente diverse centinaia di abeti e faggi distribuendoli secondo le necessità per provvedere alla riparazione delle abitazioni e per altri lavori, mentre le attività artigiane in difficoltà o ritenute strategiche per l'economia del paese beneficiano di prezzi d'acquisto calmierati. Nel 1865, ad esempio, vengono assegnati 240 faggi e 110 abeti (foto sotto). Il bosco viene irregimentato in mappe, le contrade vengono fissate sulla carta. La toponomastica del bosco Archiforo tramandata dall’Archivio comunale e oggi quasi del tutto perduta mostra la sovrapposizione di geografia umana e geografia fisica che avviene anche a livello istituzionale: si va dall’Abeto che caca all’Acqua del priore, dall’Acqua fetosa alla Fiumara del forno, dal Malo Passo al Pantano che trema, dalla Patreterna alla Pietra della cagna, dalla Pietra perciata alla Zuccarella, passando per luoghi ancora a noi noti come Angelaro e Rosarella. Assistiamo, qui, a un tipico e faticoso tentativo di inquadrare saperi e spazi dalle caratteristiche e dai confini indefiniti entro schemi da tracciare, per forza di cose, con riga e compasso e da sancire con verbo istituzionale. Il bosco serrese inzia anche ad attirare l'interesse dei naturalisti e si sviluppa una sorta di "turismo botanico" che culminerà col passaggio a Serra, nel 1934, dell'Escursione Fitogeografica Internazionale. Tuttavia emerge pure, in questa fase, la difficoltà di gestire uno spazio e una realtà che solo un secolo prima apparivano intangibili, non manipolabili se non per intervento dell'autorità certosina e in qualche modo "altre". Una realtà e uno spazio che i serresi allora non dominavano, ma dai quali erano dominati. L'equilibrio, in altre parole, si incrina: il timore e la riverenza cominciano a venir meno e del bosco si prende ad abusare .

Come già il focatico del 1880 lasciava intuire, all’inizio del Novecento la spinta propulsiva dell’artigianato va esaurendosi. Con lo sviluppo dell’industria, il mestiere dell’artigiano non è più redditizio come un tempo. Chi può permetterselo preferisce mantenere i figli a scuola sperando che accedano alle professioni, chi non può progetta di passare al salariato, nel caso anche emigrando. Si tratta di un processo generalizzato, non limitato a Serra né alla sola Calabria, ma che colpisce Serra in maniera violenta, perché se altrove, come ad esempio in Toscana, la crisi dell’artigianato viene arginata già nelle sue fasi iniziali grazie a una robusta politica di sostegno, valorizzazione e promozione che si estende sul lungo periodo sia a livello locale che regionale e viene mantenuta a dispetto delle differenze politiche nelle successive amministrazioni, questo non avviene in Calabria né tantomeno avviene a Serra. Il bosco, in questa situazione critica, comincia a soffrire e si materializza la minaccia, già segnalate da Lunardoni, della speculazione. Nel 1874 Achille Fazzari e Giuseppe Fabbricotti si aggiudicano la parte di bosco di proprietà del Demanio e subito intentano una causa contro i Comuni di Serra e Spadola nella speranza di riscuotere da loro dieci anni di canoni enfiteutici legati agli usi civici, di fatto tentando di ristabilire, per altre vie, una servitù feudale. Perderanno la causa – in quanto il Giudice farà notare che il Regio Demanio, successore legale del feudo, aveva rinunciato al canone – ma questa circostanza è significativa perché è il primo tentativo di speculazione privata su larga scala sul bene pubblico.

La situazione dei boschi comunali, in ogni caso, peggiora sempre di più. L’assenza di personale tecnico specializzato nella gestione forestale, l’uso delle assegnazioni a fini clientelari e la quasi totale assenza di controlli sulla pratica del legnare e sull'inquinamento prodotto da aziende come la fabbrica di cellulosa impiantata da Fabbricotti a Santa Maria compromettono l’integrità del patrimonio boschivo. La relazione del Commissario Straordinario Edoardo Tomaiuoli presentata al ricostituito consiglio comunale il 10 ottobre del 1908 è, da questo punto di vista, illuminante. Il Commissario apre la propria relazione richiamando il fatto che il Comune già nel 1879 aveva dovuto contrarre un ingente prestito al fine di evitare l’esproprio del bosco Archiforo e che la ristrutturazione del debito accumulatosi nel corso dei decenni era stata, per lo stesso motivo, la principale attività alla quale egli aveva atteso nel corso del suo ufficio. Tomaiuoli osserva che è ormai necessario un nuovo regolamento che limiti le assegnazioni, riservandole solo alle fasce più povere della popolazione, poiché esse hanno dato luogo “ad abusi e favoritismi” di cui, secondo il Commissario, tutti sanno. Inoltre, e cosa ancor più grave, Tomaiuoli constata che l’amministrazione comunale non si è mai preoccupata del rimboschimento né di mettere in atto una seria opera di vigilanza, dal momento che ad occuparsi dell’intero Archiforo vi sono a disposizione solo tre guardiaboschi.

La relazione di Tomaiuoli è importante perché segnala come, nel giro di un secolo, si sia venuto a creare un disequilibrio nel rapporto tra i serresi e il bosco: da fonte di sostentamento si è passati a considerarlo materiale da sfruttare; da strumento di welfare è diventato veicolo di corruzione; da bene da tutelare è stato trasformato in capitale da monetizzare. Si tratta, purtroppo, di una tendenza che continuerà anche negli anni seguenti, nonostante gli interventi legislativi e lo sviluppo di una più matura consapevolezza ambientale, e sarà aggravata dal fatto che Serra perderà completamente i saperi artigiani e l’economia da essi generata. Con lo sbarco degli Alleati nel 1943 e la conseguente requisizione degli stabilimenti produttivi la situazione si complica ancor di più. Vengono infatti disposti tagli indiscriminati, senza alcun criterio se non quello di rifornire di legname la forze armate il più velocemente possibile. Nel 1946 è il settimanale Tempo a lanciare un grido d'allarme: tra bisogni militari e interesse naturalistico nei confronti dell'abete bianco gli ordinativi di legname sono aumentati a tal misura che ormai i tagli sono fuori controllo, una vera e propria "caccia all'abete": "La Calabria – si legge sulle colonne di Tempo – ha due sole ricchezze: acqua e legname. Il legname se ne va. Si tratta di centinaia di abeti, grossi e piccoli, maturi e immaturi, che cadono ogni giorno... Pur senza continuare di questo passo, se il flusso di tronchi sulle autocolonne si arrestasse oggi, i nostri boschi, i boschi di Serra, non si dovrebbero toccare più per 50 anni, per salvarli. Ma la caccia all'abete continua." 

A partire dal Secondo Dopoguerra, il bosco assume sempre di più una dimensione ambivalente: da un lato continua a essere una sorta di orizzonte mitico, di rifugio, un bene prezioso, fragile e delicato da tutelare e valorizzare grazie anche allo sviluppo delle scienze forestali e all'emergere di nove sensibilità ambientali; dall’altro, invece, è miniera da sfruttare e violentare, luogo di faide, deposito di immondizie, ricettacolo di pericoli e, nel momenti di difficoltà economica delle amministrazioni comunali, capitale da monetizzare. Forse Serra ha perso il suo vero bosco, se oggi si ritrova a inseguire faticosamente e probabilmente senza esito uno sviluppo turistico, ambientale e artigiano che grazie alla simbiosi tra bosco e paese, tra natura e artigianato, ha avuto per breve tempo a portata di mano, ma non è stata capace di cogliere.

(Qui sotto l'estratto di una lettera in cui si richiede l'assegnazione di un "abete malandato e divelto dal vento" per provvedere alla riparazione dell'abitazione, 1933)

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