Domenica, 26 Giugno 2022 13:04

Tempi di guerra. Le lettere dal fronte di Azaria Tedeschi

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Ora che le immagini e i racconti della guerra entrano ogni giorno nelle case trascinati da un flusso continuo sembra quasi difficile pensare a tempi in cui, tranne che un territorio ne fosse direttamente investito, gli eventi bellici risuonavano, perfino per le nazioni che vi erano coinvolte, come un’eco lontana, sbiadita, appena percepibile se non fosse stato per testimonianze e segni incancellabili: una lettera recapitata dopo settimane o forse mesi, un oggetto-ricordo che sarebbe potuto diventare reliquia di un famigliare scomparso, una cartolina con l’immagine di luoghi sconosciuti il cui nome indelebilmente si imprimeva nella memoria. Una collezione di poveri cimeli arricchiva le case di chi era rimasto: vecchi inabili alla guerra, donne e bambini, intrappolati nel tormento dell’attesa. Cambia il modo di percepire una guerra, ma ciò che non muta è, invece, dall’uno all’altro conflitto bellico, la dimensione della tragedia, il triste carico di invalidi, mutilati e morti che questo porta con sé, la distruzione dei luoghi e delle esistenze. Ne dà testimonianza documentale un carteggio, ritrovato ottant’anni dopo la sua stesura, di cui è protagonista, insieme con la persona alla quale le lettere sono indirizzate (la cugina Peppinuzza), il militare serrese Azaria Tedeschi (1887 – 1917, foto in basso), tenente, capitano, comandante del IV battaglione del 79° fanteria e, dopo la morte in battaglia, maggiore del Regio esercito, rimasto ucciso il 25 ottobre del 1917, il giorno successivo alla disfatta di Caporetto.

In Libia e sul fronte italo-austriaco

Parzialmente pubblicate sul sito del settimanale L’Espresso, sotto il titolo “La Grande Guerra 1914 – 1918”, le lettere di Tedeschi sono confluite nel 2003 nell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano e, oltre ad accurati resoconti dal fronte italo-austriaco nella Prima guerra mondiale, riportano pure le esperienze maturate a partire dal 1912 in Libia, durante la cosiddetta guerra italo-turca, seguendo le quali si assiste quasi a un’autentica scoperta in presa diretta dell’altro, di cui vengono osservati con attenzione particolare i comportamenti religiosi: “L’arabo in tutte le ordinarie operazioni della sua vita prega: prega quando cammina, prega quando lavora, prega quando combatte. È ripetendo il loro domma principale di fede che gli arabi urlando si lanciano all’attacco dei nostri fortini e si fanno massacrare; e ripetendo sottovoce, quasi una triste cantilena, quelle poche parole che i condannati si avviano alla forca. Per l’arabo tutti gli avvenimenti della sua vita sono voluti da Allah e contro la sua volontà sarebbe delitto reagire. Nel suo animo nemmeno per idea germoglia il sentimento della reazione: se Allah così vuole si può opporre la debole forza umana alla potente forza divina?”. E c’è da dire che, scrivendo dal fronte italo-austriaco, lo sguardo acuto di Tedeschi non si nega, pur in mezzo ai pericoli, nemmeno il registro dell’ironia, come si vede in una lettera spedita dal Trentino ai primi di giugno del 1915: “Nelle alte valli ancora si trovano da quattro a dieci metri di neve, della quale facciamo largo uso: serve per cuocere il rancio, bere, lavarci ecc. L'acqua scorre molto più a basso e costerebbe molta fatica andarla a prendere. I sorbetti come vedi, possiamo prepararli a buon mercato. A questa altitudine sembrerebbe che la vita dovesse scorrere abbastanza triste e noiosa, ma non è così, non ci mancano i divertimenti e il buon umore. […] Noi abbiamo anche i nostri spettacoli, specialmente pirotecnici. I nostri forti e le batterie lanciano continuamente i loro proiettili che tagliano l'aria con un frullio lamentevole, passano alti e vanno a scolpire e a scoppiare sui forti austriaci, dei quali alcuni sono stati smantellati. Ma quelli che ancora hanno subito pochi danni rispondono al fuoco dei nostri forti e mandano i loro proiettili su quelli e sulle posizioni occupate da noi. Quando noi altri sentiamo che un colpo è partito da un forte nemico ci addossiamo alla roccia e alle trincee: subito dopo si sente il fischio caratteristico del proiettile che si avvicina e che giunto sulla nostra testa scoppia con grande fragore che l'eco ripercuote cupamente giù per le vallate. Avvenuto lo scoppio tutti i soldati tirano fuori la testa dal loro nascondiglio improvvisato per constatare se ci sono stati danni e in questo momento le trincee danno l'idea degli stagni popolati di ranocchi i quali sono solleciti a mettere fuori il muso appena è passato il pericolo”. Bombardamenti come spettacoli pirotecnici da osservare, trincee come stagni popolati da rane gracidanti, la guerra raccontata da Azaria Tedeschi sta anche in questo modo quasi leggero e distaccato di coglierla, a cui talvolta si aggiunge, per sua esplicita ammissione, pure il tono del comico: “Dal triste passiamo al comico. In una compagnia d'alpini che si trova con noi, c'è un soldato per nome Bertoldo. Questo soldato diverse volte era stato mandato a tagliare i fili del telefono per una ridotta e il forte nemico. Egli e gli altri componenti della pattuglia, per non essere scorti dai nemici, si erano dovuti fare un abito di pinetti nani, in dialetto detti mughe, in modo da sembrare cespugli anche a distanza di pochi metri. L'operazione andò bene diverse volte e perciò Bertoldo si sentì in diritto di chiedere una breve licenza per andare a trovare i suoi quattro figli e la moglie in stato interessante. Scrisse perciò la seguente domanda: Il sottoscritto essendo sta diverse volte a taiar i figli del forte, sempre con gran pericolo di vita e col vestito di mughe siccome ho a casa quattro bertoldini e la mia Signora, che cova, domando di poter andare ai trovar i bertoldini e la Signora. A tanta domanda non si potevano certo negare tre giorni di licenza” (lettera dell’11 novembre 1915).

Nell’uragano “di ferro e di fuoco”

  E però (si vorrebbe dire ovviamente) è il registro del dramma e della tragedia a prevalere, il fragore minaccioso degli scontri armati, il suono lugubre delle armi, le ferite anche mortali lasciate dalle battaglie sui corpi degli uomini: “Un bombardamento intenso, fatto con molti cannoni, è uno spettacolo bellissimo, ma molto impressionante. […] Ai sibili rabbiosi dei proiettili di cannone di medio calibro si univa il fruscio lento e maestoso dei proiettili di grosso calibro; allo scoppio fragoroso degli shrapnels seguono i cupi boati delle granate, gli scoppi si succedevano agli scoppi, la pioggia delle pallette si univa alla pioggia delle schegge di granata e di sassi. Era un inferno: appena si sentiva lo scoppio d'un proiettile e si tirava la testa fuori dalla trincea per l'aria si sentiva il sibilo di altri dieci - dodici proiettili che arrivavano; sulle posizioni nemiche, sui forti si scorgevano le vampate di altri proiettili che partivano. E tutta questa pioggia di ferro e fuoco si riversava su le mie trincee, i miei reticolati, sul terreno fra questi e quelle”. E se non sempre, come nell’episodio raccontato nella lettera appena citata, la battaglia lasciava sul terreno soldati uccisi, la presenza della morte era, tuttavia, una costante difficilmente eliminabile, tangibile anche quando era fisicamente assente: “Una descrizione oggi non posso e non voglio fartela, c'è troppo tragico, ed è una cosa terribile riandare ai dolorosi spettacoli cui si è costretti ad assistere. Ti dissi qualche episodio la volta passata: moltiplica quel che ti scrissi per dieci, per cento ed avrai il quadro rossastro d'una guerra moderna. C'è bisogno di una enorme forza di volontà per poter assistere impassibili allo strazio della povera carne umana martoriata dalle schegge delle granate, colpita dalle raffiche mortali delle pallette di shrapnel, dalle raffiche mortali delle pallottole di fucile. E mentre intorno la morte aleggia implacabile, mentre il mistero, pauroso forse, dell'ignoto si avvicina e sta per travolgerci, mentre alle spalle, sul fronte, ai lati, nuove esplosioni, nuovi sibili rabbiosi come lo scoppio d'un odio implacabile da lungo tempo covato nell'animo annunziano nuove piaghe doloranti, nuove vittime travolte dall'uragano di ferro e di fuoco, bisogna essere insensibili a tutto, con lo stesso timbro di voce ordinare: avanti, avanti sempre, dove più infuria la battaglia dove più ampia e la messe mietuta dalla morte... Un momento di esitazione, un momento di debolezza può generare un disastro” (lettera del 29 agosto 2015).  

“Marianna” uccide

Ed è anche un nome di donna, un nome identico a quello della giovane donna con il cappello frigio che rappresenta la repubblica francese, attribuito sulla linea del fronte ai cannoni austriaci, ciò di cui la morte si serve sui campi di battaglia. “Marianna”, questo il nome femminile dei cannoni, esplode i propri colpi, bombarda le linee nemiche, uccide: “Avantieri Marianna mi ha fatto provare un grande dolore. Avevo invitato per le 16 alcuni ufficiali a prendere un the e ci eravamo riuniti nella nuova stanza di mensa. Marianna al solito aveva cominciato il suo pomeridiano bombardamento. Verso le 17, uscendo dalla mensa, un soldato mi da un biglietto: l'apro e leggo, piccola guardia n 3, soldato Rech Luigi, deceduto nella prima cannonata (sic). Andai subito alla piccola guardia trovai il povero Rech, uno dei migliori miei soldati, morto sotto un albero. Poco tempo prima aveva terminato di scrivere alla moglie. Consegno la lettera al capo posto, che uscì un momento dalla trincea, che la porti all'ufficio della compagnia. Non mi ero allontanato di 5 metri quando scoppiò uno shrapnerl, sparato naturalmente da Marianna: una scheggia lo colpì dietro l'orecchio sinistro e fratturato l'osso penetrò nel cervelletto fulminandolo. Cadde senza emettere un lamento, senza provare alcuna sofferenza. Lo prova il fatto che le mani erano rimaste nelle tasche dei pantaloni, i muscoli non erano contratti come in genere avviene in tutti coloro che muoiono di morte violenta. Rech è il primo soldato della mia compagnia che Marianna uccide, malgrado i suoi giornalieri bombardamenti che ormai durano da 35 giorni nei quali per lo meno ci ha mandato 700 proiettili tra granate e shrapnel”. 

Le ultime lettere

Dopo “Marianna” il “Nonno”. Ancora un nome che non dovrebbe destare terrore per “battezzare” la batteria di obici modernissimi che producono un’esplosione talmente terrificante da far perdere addirittura la voce a un soldato per lo spavento e spingere Tedeschi a spendere qualche rigo per descriverla: “[…] Lo scoppio d'una granata da 152, tipo moderno, è qualcosa d'impressionante: arriva con un fracasso da valanga, scava nel terreno buche profonde almeno 1,50 metri e del diametro di 5-6 e  le schegge e i sassi vengono lanciati anche a mille metri di distanza. Una granata cadde vicino a un pino altissimo e dal fusto di almeno 45 centimetri di diametro: il pino fu sradicato, lanciato in aria, e ricadde molti metri lontano”. E sembra quasi una beffa, il divertimento di un dio crudele, che nomi così familiari possano trovarsi associati, in guerra, a terribili macchine della morte. Tuttavia, non basta questa potenza di fuoco né bastano gli oltre centomila uomini che secondo i giornali dell’epoca gli austriaci ammassano sul fronte nella primavera del 1916 per far perdere a Tedeschi la convinzione della vittoria e la speranza della pace, sebbene al “prezzo di gravi sacrifici” (lettera del 21 aprile 1916). Lo stesso Tedeschi si trova, a un certo punto, fuori combattimento, costretto da una ferita ad allontanarsi dal teatro della battaglia, sulla Bainsizza, come dà puntualmente conto nelle due ultime lettere del carteggio: “Una fucilata sparatami da un testone croato mi colpì alla coscia destra e si limitò a scavare nella massa muscolare un canale che guarirà in una quindicina di giorni. Per resto sto benissimo e appena guarito ritornerò tra i miei soldati. Domani forse cambierò ospedale e andrò con tutta probabilità a Milano” (lettera del 5 settembre 1917). Per riprendere ancora l’argomento nella lettera che invia alla cugina Peppinuzza l’8 settembre successivo: “Ti scrissi da Cividale che il 3 corrente che su l'altipiano di Bainsizza, mentre ero fuori per una ricognizione, sono rimasto leggermente ferito. Una pallottola di fucile mi attraversò la massa muscolare della coscia destra senza ledere né osso né nervi; una ferita leggera quindi che guarirà molto presto: attualmente mi trovo all'ospedale militare Vignola, 2° Reparto, Milano ma forse fra qualche giorno, quando sarà terminato il periodo di contumacia, cambierò ancora. È facile che io vada a Torino ma io cercherò di restare a Milano perché mi secca andare in giro su treni ospedali. Su l'altipiano il mio reggimento ha combattuto molto specie nei giorni 29 e 30 agosto e io sono il 45° ufficiale messo fuori combattimento. Nei giorni di combattimento più intenso e sanguinoso io rimasi incolume, ma è stato seccante buscarsi una pallottola durante una stupida ricognizione. Del resto pazienza. Ringrazia Letizia della lettera e delle preghiere. Io sto benissimo e la ferita non mi da soverchio fastidio o dolore. Non basta la voglia di fare una scorpacciata di frutta per ottenere una licenza e allontanarsi da una battaglia in corso, ma chissà che la pallottola austriaca non mi permetta di venire a fare la scorpacciata che mi promette. Dammi tue buone notizie e abbiti tanti baci”. Baci per la cugina Peppinuzza e l’attesa di sue buone notizie: sono l’ultima traccia letteraria - una traccia dolce, lieve, intrisa di struggente tenerezza - di un’esistenza che da lì a poco più di un mese si sarebbe interrotta per sempre su un campo di battaglia.

Ferito a morte

Quella ferita procuratagli da un “testone croato” e dalla quale non era ancora guarito Tedeschi se la sarebbe portata dietro nel suo ultimo appuntamento con la guerra. Non a caso è proprio la sua presenza a fornire l’incipit della motivazione della medaglia d’oro al valor militare che all’ufficiale serrese viene attribuita per la sua morte eroica: “Non ancora completamente guarito da una ferita riportata in combattimento, di propria iniziativa accorse ad assumere il comando del suo battaglione […]. Alla testa delle sue truppe, corse con serena decisione e straordinaria fermezza ad arginare l’uragano, ma premuto sempre più dall’impeto di un avversario tre volte soverchiante per numero e per mezzi ed imbaldanzito ormai dal suo successo, con eroica decisione ed incitando col mirabile esempio del proprio ardimento i dipendenti, per primo si slanciò a capo fitto contro la ferrea cerchia degli assalitori, ed insieme con le proprie truppe si impegnò con essi in violento corpo a corpo, che con accanita tenacia sostenne, fin quando cadde gloriosamente colpito a morte”. Come si diceva, era il 25 ottobre del 1917.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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