Domenica, 30 Aprile 2023 08:25

Il martirio della scuola in Calabria

Scritto da Tonino Ceravolo
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Non aveva ancora compiuto vent’anni Umberto Zanotti Bianco (La Canea, Creta, 22 gennaio 1889 – Roma, 28 agosto 1963) quando, anche per impulso di Antonio Fogazzaro, si era recato a Reggio Calabria per portare soccorso agli abitanti vittime dello sconvolgente terremoto del 28 dicembre 1908. In questo “gesto” c’era molto dell’uomo e dell’intellettuale, figlio di un diplomatico e di un’aristocratica inglese, che avrebbe lasciato con la sua presenza una traccia importante nella storia d’Italia dei primi sei decenni del Novecento: l’impegno filantropico, da una parte, lo sguardo rivolto ai problemi del Mezzogiorno dall’altra, meridione italiano a cui si sarebbe accostato anche come archeologo e come fondatore della Società Magna Grecia nonché della Collezione di Studi Meridionali e, nel 1931 assieme a Paolo Orsi, della rivista Archivio Storico per la Calabria e la Lucania. Iniziative che erano state precedute dalla nascita dell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (1910), di cui Zanotti Bianco fu uno dei più importanti propulsori, e che sarebbero state seguite dalla fondazione di Italia Nostra nel 1955 della quale siglò l’atto costitutivo con Elena Croce, Pietro Paolo Trompeo e Giorgio Bassani tra gli altri. Firmatario del Manifesto degli intellettuali antifascisti, promosso da Benedetto Croce nel 1925, con la nomina a senatore a vita nel 1952 da parte del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi la sua carriera pubblica avrebbe trovato il meritato coronamento.

“Pagine di vergogna” della scuola in Calabria

La Calabria, il Mezzogiorno, la Magna Grecia, erano questi i centri d’interesse verso i quali Zanotti Bianco avrebbe indirizzato buona parte della sua attività di studioso già a partire da L’Aspromonte occidentale: note, scritto con Giovanni Malvezzi e pubblicato nel 1910 sulla scia della spinta prodotta dall’esperienza calabrese nel periodo successivo al sisma reggino-messinese di due anni prima e dalla scoperta degli annosi problemi del Sud.  E se in questo percorso intellettuale imprescindibili sono le pagine di Tra la perduta gente (Mondadori, 1959 e Rubbettino, 2006), con le dense considerazioni su Africo già pubblicate nel 1946 nella rivista “Il Ponte”, Il martirio della scuola in Calabria (nostra quarta “nuvola di carta” del 2023, pubblicata da Vallecchi nel 1925 e poi dall’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d'Italia nel 1996) costituisce una tappa rilevante nella denuncia, etica prima ancora che politica, delle condizioni dell’Italia meridionale, lette dal particolare angolo visuale di uno snodo essenziale della vita civile del Paese. Ed è proprio nell’amarezza con cui si apre il volume, nelle due pagine indirizzate a Lombardo-Radice, che l’impegno morale di Zanotti Bianco si staglia tutt’intero nel confronto con la disastrosa realtà scolastica della Calabria – che sfigura persino dinanzi a una comparazione con la “lontana isola di Sumatra” - afflitta dalle “infinite pratiche per la creazione degli edifici scolastici da per tutto mancanti”, dalle “difficoltà talora insormontabili per la ricerca degli alloggi per i maestri”, dall’ostruzionismo dei comuni inadempienti ai loro obblighi “per i locali e per l’arredamento scolastico”, dall’impreparazione di parte dei Direttori didattici. Sono “pagine di vergogna” quelle che Zanotti Bianco propone all’attenzione dei lettori, ma che, tuttavia, non rinunciano alla speranza che “nel cuore di alcuni di coloro” che le scorreranno “s’accenda quell’ansia senza fine, quel dolore attivo di patria che alimenta e ha sempre alimentato la nostra modesta ma perseverante azione nel Mezzogiorno d’Italia”. 

Un’inchiesta sul campo tra le aule delle scuole calabresi

Che si trattasse di vergogna e di martirio, come recitava il bel titolo del libro, stavano a dimostrarlo i materiali che Zanotti Bianco aveva raccolto sulla scuola calabrese, che configuravano il volume come un’autentica inchiesta sul campo. Il problema più urgente (e sembra quasi di sentire, fatte salve le debite e non piccole differenze, tanti discorsi odierni in tempi di PNRR) era quello dell’edilizia scolastica, diventato ancora più grave in seguito alla tragedia del 1908. A Reggio la “totalità quasi delle scuole è […] rappresentata da baracche costruite subito dopo il terremoto del 1908. Pochissime hanno doppia parete; pochissime hanno conservato i vetri delle finestre; la maggior parte di esse lascian passare aria e luce da fessure nelle quali si può spesso introdurre l’intero braccio”. A Villa S. Giuseppe la scuola si trovava dentro una chiesetta “che funziona e da scuola e da chiesa”, mentre a Riace Scalo era sistemata dentro un vagone. Tante, troppe, le cause all’origine di questa deplorevole situazione: le molte pratiche richieste per la concessione dei mutui, gli errori degli Uffici Scolastici Provinciali “nello stabilire il fabbisogno delle aule dei nuovi edifici”, la mancanza dei piani regolatori dei Comuni che impediva sia la ricostruzione dei centri abitati distrutti dal sisma sia l’erezione di nuove scuole, l’insufficienza delle somme stanziate per l’edilizia scolastica. Né andavano meglio le cose nei comuni distanti dall’epicentro del terremoto, come dimostrava, a esempio, la situazione in provincia di Catanzaro e di Cosenza.  Ad Acquaro esistevano, in tutto, 5 aule scolastiche e la loro condizione era miserrima, come miserrimo era l’arredamento; ad Arena la scuola era ubicata nel palazzo municipale reso cadente e pericolante dal terremoto del 1905; a Briatico la negazione delle norme igieniche era assoluta perché le aule difettavano “di luce, di cubatura richiesta pel numero degli alunni”: “Le aule delle frazioni sono baracche, con finestre senza vetri e con le pareti ornate di fessure dove entra ben comodamente il vento e il freddo. […] Senza dire che i banchi sono senza schienale e che lo scrittoio non ha l’altezza proporzionale alla statura dell’alunno né la distanza del sedile richiesta dall’igiene”. Nel territorio delle Serre la situazione era altrettanto drammatica. A Cardinale di fronte alle finestre delle aule vi erano stalle “con animali equini e pecorini, da dove esalano miasmi pestiferi”; a Chiaravalle le aule erano quasi tutte “stambugi”, ampie non più di tre metri per tre, senza luce e calore, ma ricche di umidità, con pochi banchi di “vecchissimo tipo” e con gli insegnanti alcune volte costretti a pagare di tasca propria la sedia; a Torre di Ruggiero erano stati adibiti a scuola i peggiori vani della casa municipale, inutilizzabili per altri usi; a Vallelonga “si erano costruite due baracche-scuola, ma perché l’inverno divenivano due potenti frigoriferi e d’estate due forni crematori, così vennero abbandonate” e i banchi potevano considerarsi autentici “strumenti di tortura”. Si potrebbe proseguire con le altre decine di esempi che Zanotti Bianco riporta dalla provincia catanzarese e cosentina, ma la situazione non muterebbe, tanto era esteso e pressoché uniforme lo stato deplorevole dell’edilizia scolastica in Calabria. La voce di un ispettore della provincia di Reggio, dopo aver sintetizzato tale condizione, aggiungeva ulteriori elementi: “Mancano i sussidi didattici, le immagini atte a coltivare i buoni sentimenti, le biblioteche, il museo, e perfino il gesso. Qualche insegnante acquista a proprie spese il registro e il diario. La scuola appare quindi squallida, tetra, priva di bellezza”.

I ricatti dei “maestri pennaioli”

Eppure, non sarebbe bastato, osserva Zanotti Bianco, non ubicare più le aule in “malsani abituri” perché la scuola in Calabria fosse all’altezza del suo compito: “Ma le scuole più belle, degne veramente dell’alta funzione a cui sono destinate qual luce recheranno tra le nostre masse se non saranno vivificate dallo spirito innovatore dei maestri?”. Impreparazione intellettuale e “impreparazione morale” erano i due macigni posti sul cammino delle speranze di miglioramento, come dimostrava, riguardo alla prima, una lettera indirizzata al Provveditore agli Studi di una maestra siciliana, giunta in Calabria “in uno di questi paesetti abbandonati” e fuggita disperata dopo venti giorni, che tracciava un ritratto poco commendevole delle sue colleghe: “Voi potete vederle avviarsi alla scuola, senza un compito in mano perché non ne correggono mai, senza un libro da leggere agli alunni perché da tempo immemorabile non passa carta stampata sotto gli occhi all’infuori del giornaletto magistrale al quale forse non sono più abbonate. Potete vederla qualcuna, con vesti d’antico taglio rannicchiata come una cariatide sotto il peso dei rimproveri e delle strapazzate che riceve da tutti, […] con quella faccia d’indifferenza pietrificata che vuol dirvi: Ma se non so più nulla”. Ancor peggio l’impreparazione morale di chi insegnava, talvolta persino in lotta con i propri colleghi “per impedir loro di sistemarsi nella scuola a cui sono destinati”. Né mancavano terribili eccessi che coinvolgevano maestri in omicidi, furti, violenze carnali, reati di falso. E anche quando non si fosse guardato a questi casi – che, per quanto diffusi, erano pur sempre delle eccezioni, evidenzia Zanotti Bianco – la dubbia moralità di tanti insegnanti si rivelava pure nella figura dei “maestri pennaioli”, pronti a predisporre ricatti nei confronti delle autorità scolastiche “con i loro articoletti velenosi e pieni di allusioni offensive”. Se gli archivi dei Provveditorati potessero parlare, era la sua sconsolata conclusione, “che fremiti di indignazione e di spavento ci darebbero”.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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