Domenica, 23 Luglio 2023 07:39

Nella dimora incantata di Ferdinandea. Il sarcofago di Ruggero e l'erba magica di Campanella

Scritto da Tonino Ceravolo
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Lo stabilimento Mangiatorella, 1904 Lo stabilimento Mangiatorella, 1904

Il “Paradiso delle Calabrie”, così Luigi Cunsolo (Stilo, 1884 – Roma, 1979) definisce la Ferdinandea, nel cuore intimo delle Serre: “Qui l’apoteosi immensa della natura […]; qui la gamma del verde, la freschezza delle acque, la vastità degli orizzonti limpidissimi, il brivido canoro delle selve immani e giganti, al passare del vento, che porta la fragranza silvestre dell’erba fiorita”. Un luogo d’incanti che aveva sedotto molti altri - e Cunsolo cita Rocco De Zerbi, Alessandro Lupinacci, Matilde Serao, Luigi Lodi, Baldassarre Avanzini, Luigi Arnaldo Vassallo – e che lo scrittore stilese restituisce al lettore in un volumetto composito (la nostra sesta “nuvola di carta”) intitolato Tra le foreste della Ferdinandea e pubblicato a Prato nel 1906 (dal 1989 anche in ristampa anastatica per Arnaldo Forni Editore). Un libricino difficile da inquadrare, per la troppa varietà di temi e materiali che, in poco più di settanta pagine, lo attraversano, ma che trova nel suo luogo eponimo una forse fragile unitarietà e che ha un dominus in quell’Achille Fazzari (garibaldino, deputato del Regno d’Italia, imprenditore), all’epoca proprietario della Ferdinandea, di cui altre volte si è scritto sul Vizzarro, da Cunsolo presentato come autore di un’opera “rigeneratrice”, “un uomo d’altri tempi” che incarna il “tipo energico e leonino” e che suscita le memorie dell’eroica epopea delle camicie rosse.

Il “santuario” di Fazzari e il sarcofago della Certosa

E la dimora di Fazzari alla Ferdinandea, visitata con ammirazione da Luigi Cunsolo, diventa, non a caso, il “santuario”, una sorta di tempio-museo in cui sfilano tanti preziosi reperti dentro un’atmosfera di solenne e profonda “pace religiosa” nella descrizione estasiata che ne dà il poligrafo stilese: “E il linguaggio che fluisce da quelle pareti, da quelle manifestazioni di una Sapienza grande ti esalta e ti rapisce, divinamente. La tua vita non è quasi più terrena e il silenzio che regna in quel luogo concorre a far convergere di più l’animo nella meditazione, ad ingolfarlo nel ricordo suggestivo di un passato splendido e meraviglioso, come l’alzarsi di un sogno eroico su l’orizzonte di un popolo che insorge e combatte”. Accantonati gli empiti lirici dell’autore, l’elenco dei reperti ospitati nella collezione (e tralasciando, qui, qualsiasi problema in merito all’attribuzione delle opere) effettivamente impressiona. In una stanza si vede il busto di marmo pario, trovato negli “scavi della Magna Grecia”, di “Mercurio, il Dio dei ladri”, che signoreggia sugli altri busti quasi a indicare “che fu il solo a sopravvivere all’infinita pleiade di divinità pagane”. In un angolo, poi, colpisce, “per la sapienza magistrale delle linee e per l’espressione del viso”, un busto di Napoleone Bonaparte opera di Antonio Canova, donato dallo scultore a Paolina Borghese e per “inesplicabili leggi del Destino” andato a finire “in mezzo ai boschi della Calabria”, che si accompagna al “letto in cui Napoleone dormiva quando si ritirò dall’isola d’Elba” e a “un piccolo mobile, di stile Luigi XV”, autentico capolavoro d’intarsio. Ancora “due organi che rappresentano l’uno il Duomo di Orvieto, l’altro il Duomo di Siena, capolavori del Barbetta” e “un disegno di Raffaello Sanzio, rappresentante una libreria, che un tempo apparteneva a Leone X”. Né mancava una “meravigliosa collezione di pergamene antiche” dei tempi di “Ladislao, di Carlo III, di Carlo V, delle due Giovanne, degli Aragonesi” o una raccolta di insigni cimeli garibaldini, come un sonetto autografo di Garibaldi sull’amicizia dedicato a Fazzari o i ritratti dell’eroe dei Due Mondi e di Nino Bixio. Innumerevoli i vasi antichi che occupavano intere pareti di una stanza, mentre un’altra stanza esibiva un reperto già segnalato (si veda l’articolo richiamato all’inizio) anche nella documentazione archivistica della Certosa di Serra, il sarcofago di Ruggero d’Altavilla in pietra bianca appenninica: “Sopra vi riposa un guerriero medioevale, vestito del ferreo cavalleresco costume dell’età di mezzo. È Ruggiero il Normanno, il pio e religioso Re delle due Sicilie, che nel 1100 di tante donazioni arricchì la Certosa di Serra San Bruno, il Convento dei Basiliani di Stilo, e tante altre chiese e monasteri. Si rinvenne tra le rovine della Certosa di Santo Stefano, distrutta dal tremuoto del 1783”.

Intermezzo: una nota sul sarcofago e un disegno

Ed è qui il caso di aprire una parentesi, prima di far ritorno al libro di Cunsolo, per dire di una noterella sul sarcofago del vecchio archivista della Certosa, Dom Basilio Caminada (L’Aja, 1920 – Serra San Bruno, 1996), e del disegno che l’accompagna: “La lapide-sarcofago del Gran conte Ruggero, che si conservava nell’ex Palazzo Reale di Ferdinandea – scrive Dom Caminada – stava anticamente nella Certosa di Serra San Bruno. Fu ritrovata nel mese di gennaio 1895, durante i lavori di restauro del convento. Misura 2,10 m. (c) in lunghezza, e rappresenta il Conte Ruggero nel sonno della morte. Il principe è armato di spada e pugnale, e due cani si son accovacciati ai suoi piedi. La preziosa trovata, che stava murata dentro la vecchia fabbrica, fu regalata dal P. Rettore D. Ambrogio BULLIAT al Sign. Achille FAZZARI, insigne benefattore della Certosa Serrese. Il prof. di disegno Giuseppe M. Pisani, Serrese, ne fece un disegno nel marzo-aprile 1962, adattato in seguito al ciclostile, in Certosa, prima nel 1962, poi nel 1972. Nell’agosto 1965, questa lapide fu trasferita a Milano dalla Contessa, proprietaria della villa Borbonica di Ferdinandea. Detta lapide non figura tra i monumenti d’arte vincolati dalla Soprintendenza ai Monumenti e Gallerie della Calabria”. Tante sarebbero le postille da aggiungere a questa nota, ma tra le tante ci limitiamo a una: quel disegno è uno dei pochissimi riscontri iconografici della lapide e lo presentiamo ai lettori del Vizzarro, avendo già sopra riportato la testimonianza de visu di Luigi Cunsolo. Le vicende della lapide-sarcofago a Milano sarebbero, invece, tutte da indagare, ammesso che vi sia ancora qualche traccia che permetta di ricostruirle.

Leggende belle e insuperabili, per concludere

Sono gli “appunti di folk-lore” il motivo che ci fa ancora insistere, prima di chiudere, sulle pagine di Cunsolo, che compie un breve periplo tra i luoghi prossimi alla Ferdinandea per ritrovare la presenza di quelle “credenze antiche” che, a suo dire, la Calabria avrebbe “massimamente” conservato “per leggi ataviche e per condizioni etnografiche”. E sono ancora Serra San Bruno e l’insediamento monastico brunoniano a fornire a Cunsolo materiale per le sue divagazioni, che adesso si concentrano sui “due dimenticati dal mondo” (altri non sono che Bruno di Colonia e Lanuino) i quali avrebbero avuto come “assiduo visitatore solamente Satana proteiforme”, che si offriva al loro sguardo “sotto le forme di bellissima donna impudica, emergente dalle acque di una fonte vicina […]”. Tanto che il diavolo, non riuscendo “a riscuoterli dal rapimento rivelatore dell’estasi, incurvò per la rabbia il fusto di un grossissimo abete, e fuggì mugolando per le cupe forre profonde”. In questo modo Cunsolo spiega l’origine della leggenda agiografica dell’abete inginocchiato, che avrebbe assunto quella curiosa postura non per imitare Bruno nei suoi quotidiani esercizi ascetici, non per riprodurne l’atteggiamento di devota genuflessione, bensì perché opera di Satana, frutto di una rabbiosa reazione del Maligno deluso. Un po’ casuale, per la verità, questo gironzolare dell’autore tra i motivi folklorici di questo lembo della Calabria oggetto della sua attenzione, che poi ricorda anche le credenze sulle anime vaganti dei morti e il loro incarnarsi in “forma di animali” e la “prodigiosa” erba del Consolino di cui avrebbe fatto esperienza Tommaso Campanella e che “comunicava la scienza a chiunque ne mangiava”. Per concludere con un lungo resoconto della leggenda, “bellissima e insuperabile”, dell’acqua di Mangiatorella, della quale Achille Fazzari rappresentava il presente imprenditoriale, avendola per primo fatta imbottigliare nel 1904, ma che Cunsolo trascolorava nel mito, in un’aura magica perfettamente in linea con gli altri incanti della Ferdinandea che lo avevano sedotto.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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