Domenica, 03 Dicembre 2023 08:57

Il ciborio delle meraviglie. Storia di un capolavoro tra Serra e Vibo

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Un particolare del ciborio della chiesa dell'Addolorata di Serra (foto di Bruno Tripodi) Un particolare del ciborio della chiesa dell'Addolorata di Serra (foto di Bruno Tripodi)

Tra gli episodi certamente più rilevanti di quel capitolo della storia certosina calabrese che abbiamo definito “Certosa perduta”, in riferimento a quanto avvenne nei decenni successivi al macro-sisma del 1783, sono da annoverare le vicissitudini che coinvolsero il grande ciborio di Cosimo Fanzago, appartenuto al monastero e da due secoli a questa parte collocato nella chiesa dell’arciconfraternita dell’Addolorata di Serra. Un’opera capitale non soltanto per la storia dell’arte a Serra San Bruno e in Calabria, ma anche per le vicende artistiche dell’intera Italia meridionale, se si considera il valore e il ruolo del suo autore in quelle vicende e la qualità intrinseca del monumentale manufatto, in cui immaginazione architettonica, scultura, decorazione, entrano contemporaneamente in gioco, con una straordinaria finezza di esecuzione, per produrre un effetto mirabile.

Un innovatore del linguaggio scultoreo

Cosimo Fanzago era nato, in un giorno imprecisato del 1591, a Clusone nei pressi di Bergamo e ancora giovane, si era recato a Napoli (1608) per lavorare nella bottega dello zio paterno Pompeo, “oripellaro”. Quattro anni dopo aveva preso in sposa la figlia dello scultore fiorentino Angelo Landi, con il quale collaborava alla conduzione della bottega come “maestro di scultura di marmo”. Come scrive Silvana Savarese, nel suo contributo sull’architettura dal viceregno spagnolo all’unità d’Italia contenuto nella Storia del Mezzogiorno diretta da Giuseppe Galasso e Rosario Romeo, “l’artista bergamasco esercitò una rilevante e durevole influenza, nel Seicento ed oltre, in tutta l’Italia meridionale. Tra il 1619 e il ‘20 si recò personalmente a Barletta per lavorare alla decorazione dell’abside della Cattedrale; nel 1626, e nuovamente dopo il 1628 soggiornò a Montecassino per la ristrutturazione del coro e l’ammodernamento dell’altar maggiore e delle cappelle della chiesa dell’abbazia. Tra il ‘26 e il ‘28 visse a Pescocostanzo per i lavori al convento benedettino di S. Scolastica e, successivamente, intorno al 1630 per l’altare maggiore della chiesa di Gesù e Maria”. Fondamentali furono i tre decenni (1623-1656) che lo videro impegnato a compiere i lavori di completamento della Certosa di San Martino in Napoli, per la quale l’artista bergamasco creò alcuni capolavori (come il mirabile San Bruno), pervenendo – il giudizio è di M. Mormone nel volume collettaneo Civiltà del Seicento a Napoli - a “un momento di grande felicità inventiva e di radicale rinnovamento del linguaggio scultoreo”.  Di Napoli Fanzago inventò il “volto” barocco, rimanendo legato alla città fino alla morte, sopraggiunta il 13 febbraio del 1678. L’incarico per la realizzazione del grande ciborio della Certosa di S. Stefano del Bosco gli venne affidato nel 1631, durante il priorato di Dom Ambrogio Gasco e nell’esecuzione l’artista bergamasco si avvalse dell’aiuto dei fonditori S. Scioppi e Raffaele Matinier (conosciuto anche come Matiniti o Materico) detto il Fiammingo, nonché dell’opera dello scultore toscano Innocenzo Mangani, giunto a Serra proprio su invito dello stesso Fanzago. Tuttavia, dopo quasi un ventennio, Fanzago abbandonò i lavori, che vennero ultimati da Andrea Gallo.

La “macchina” del ciborio nell’Addolorata di Serra

Un giudizio di Gianfranco Gritella sintetizza efficacemente la natura del capolavoro fanzaghiano: “Collocato sullo sfondo del presbiterio a separare lo spazio luminoso della crociera dal retrostante coro, il grande altare costituiva nella chiesa di fine cinquecento [della Certosa, N.d.A.] il punto focale dell’ornamentazione interna del campo verso cui convergevano le attenzioni degli spettatori che assistevano alle celebrazioni liturgiche. Ne risultava un organismo globale, dove scultura, architettura, oreficeria e arti applicate si amalgamavano in una componente unica dallo schema costruttivo ormai decisamente barocco, realizzando una ‘concrezione’ preziosa di marmi policromi e di metalli dorati” (G. Gritella, La Certosa di S. Stefano del Bosco a Serra S. Bruno […], L’Artistica Savigliano, 1991). Fornisce un’adeguata integrazione a questo giudizio una famosa lettera dell’erudito monteleonese Vito Capialbi, spedita l’1 giugno 1852 all’avvocato e studioso messinese Giuseppe Grosso Cacopardo, con la descrizione della “macchina” del ciborio quando questo era già stato trasferito dalla Certosa alla chiesa dell’Addolorata di Serra dopo il terremoto settecentesco: “Amico carissimo, per riscontrare la sua umanissima de' 24 febbraio, colla quale mi chiedeva notizie sicure della Certosa di S. Stefano del Bosco, e se in essa esistono, o esisteron quelle statue suddette (parlava Lei delle dodici di bronzo che furon poste intorno alla Custodia del Sagramento, e nel ms. 40 volume degli Annali di Messina del Gallo si dicevano opera d'Innocenzo Mangani), e qualunque altra notizia che potrei avere su' lavori di scultura o di plastica dal Mangani in Certosa eseguiti, non ho trasandato di scrivere in Serra, ond'essere istruito su tali inchieste […]. La custodia ossia il gran Ciborio, trasportato nella Chiesa della Congregazione dell'Addolorata, ov'esiste, co' pezzi che rimasero dietro lo spoglio fatto nell'occasione della soppressione della Certosa (1807), si è verso il 1836 accomodato alla meglio e presenta l'altezza in palmi [due volte] 291/2 e la larghezza di 12 in quadro (dicesi che quando era intero nella Chiesa della Certosa si elevava palmi 33). È formato con otto colonnette di rosso di Francia; mentre tutto il rosso è di marmo bianco impellicciato con altri marmi di vari colori, e ornato sulle colonnette di cinque statue di bronzo dorato rappresentanti i Santi Pietro, Paolo e Giovan Battista, e sulla cupoletta dalle prime sostenuta vi è il Gesù risorto. Le statue sono alte palmi 21/2, e le basi ed i capitelli delle colonne sono anche di rame dorato con molti festoni dello stesso metallo come lo sono pursì quattro angioletti di pari altezza, delli otto che prima vi erano, i quali con le mani sostengono sul capo de' cesti di fiori. Nel centro vi è il tabernacolo costruito di marmo a forma di tempietto con guarnimenti di rame dorato ed argento. Il marmo era incastrato di pietre orientali, di cui la massima parte è scomparsa! Attorno a detto tempietto sono altre quattro statuette di bronzo dorato rappresentanti i Santi Gregorio, Ambrogio, Girolamo ed Agostino”.

E dieci statue da Serra vanno a finire a Vibo Valentia

Ma la lettera di Capialbi al Cacopardo, fondamentale perché si tratta di una descrizione del ciborio nei decenni immediatamente successivi al suo spostamento, assume ulteriore rilievo poiché documenta un secondo accadimento che interessò l’opera, con lo smembramento di un numero significativo di statue che ne facevano parte e la loro traslazione a Monteleone (oggi Vibo Valentia): “Nella Chiesa poi del Duomo di questa città di Montelione, e proprio nella cappella dedicata alle Anime del Purgatorio, oltre alle tre bellissime statue di marmo, delle quali le parlai in altra mia, sul cornicione delle colonne dell'altare si veggono quattro statuette che rappresentano i Santi Bruno, Stefano, Lorenzo ed Ugo Arcivescovo di Vienna e due putti simili agli esistenti tuttavia in Serra, non che sulla mensa quattro angeli ginocchioni in atto di adorazione, e vari pezzi di ornati. Tanto le statue dell'altezza di palmi 21/2 circa, che gli ornati sono di bronzo dorato, e facevano parte dell'antico Ciborio della Certosa”. E in questa chiesa le statue di Fanzago rimasero, quasi a far da contorno al trittico di Antonello Gagini collocato sull’altare (foto in basso), fino al 1988, quando furono ulteriormente spostate nella sede del Museo d’Arte Sacra di San Leoluca sempre a Vibo Valentia. Singolare “destino” di questa importante opera realizzata per la Certosa. La complessa macchina architettonica progettata da Fanzago viene smontata nel XIX secolo per essere ricollocata nella chiesa dell’Addolorata di Serra, ma, oltre alla sua asportazione, subisce uno snaturamento della primitiva impaginazione fanzaghiana e una non piccola defraudazione. Rimontato nella nuova collocazione, il ciborio è in parte rimodellato e ridotto per adattarlo alle dimensioni più contenute del nuovo sito e, come abbiamo appena visto, ben dieci figure bronzee che lo adornavano sono prelevate e trasportate a Vibo, dove oggi sono visibili nel Museo di San Leoluca completamente decontestualizzate e spogliate della loro significazione originaria, quasi con lo status di objets trouvés. Il ciborio subisce, in questo modo, una triplice ridefinizione della propria identità: spostato di luogo, parzialmente modificato rispetto alla propria configurazione primitiva, amputato di parti che appartenevano alla sua “essenza”. Il mirabile manufatto si è, insomma, complessivamente conservato diventando, però, in qualche misura altro da sé: è un monumento della storia della Certosa pre-terremoto che incarna, nelle sue mutilazioni, le ferite di quella storia in seguito al sisma del 1783 e tuttavia, a dispetto delle amputazioni e riconfigurazioni, “perdendosi” si è in un certo senso anche ritrovato, perché si è salvato dalla distruzione mantenendo un sostanziale isomorfismo con la sua identità originaria, nonostante le dieci statue prelevate e collocate nell’estraneo (e straniante) contesto monteleonese. Come altri oggetti smarriti della Certosa, il ciborio rivela perché racconta una storia plurisecolare e, contemporaneamente, nasconde poiché quella storia è oggi, nell’attuale visibile struttura di questa “macchina” architettonica, solo parzialmente rivelata, costituisce un deposito di memoria ma pure un segno del suo ottundimento. Come forse accade tutte le volte in cui, perfino senza volerlo, siamo costretti a misurarci con il nostro passato.


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Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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