Domenica, 28 Gennaio 2024 09:29

Il paese più bigotto della Calabria. Serra nello sguardo di Norman Douglas

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Il raffinato esteta, il diplomatico cessato dal suo incarico per evitare uno scandalo, l’innamorato dell’isola di Capri, il viaggiatore curioso che si era mosso tra Italia, India e Nord Africa e che rispondeva al nome di Norman Douglas (Thüringen, Austria, 1868 – Capri, 1952), aveva pubblicato uno dei suoi capolavori, quell’Old Calabria che è la nostra “nuvola di carta” del mese di gennaio, nel 1915 da Martin Secker a Londra. Considerato tra i libri di viaggio più belli della storia editoriale, il volume era il frutto delle numerose visite che il suo autore aveva condotto “in quel paese selvaggio” – secondo l’irricevibile espressione del suo prefatore John Davenport – e avrebbe conosciuto numerose traduzioni in italiano, a partire dall’edizione Giunti-Martello del 1962 (più volte riproposta, anche in anni recenti, con il solo marchio Giunti) e sino a un’edizione caprese della Conchiglia del 2004.

Antropologo, naturalista, esploratore

Ecco il denso ritratto di Douglas disegnato recentemente da Francesco Bevilacqua (Lettere meridiane. Cento libri per conoscere la Calabria, Rubbettino, 2015): “Anticonformista, anticlericale e anticristiano, innamorato della cultura e della religiosità pagana classica, eccentrico, edonista, esperto naturalista, cultore del paesaggio, avido lettore, scrisse romanzi, libri di viaggio, saggi, persino una sorta di autobiografia. […] Sempre a corto di quattrini, inquieto, in conflitto con tanti e in polemica con molti, non ebbe mai pace, sino a che degli amici non gli offrirono l’ultima ospitalità sull’isola che ora ospita la sua tomba. Aveva la tempra ferrea dell’esploratore, del naturalista e dell’antropologo vecchia maniera, capace di sopportare lunghe marce a piedi […], di adattarsi a condizioni ambientali proibitive, di non disdegnare cibi poco invitanti e alloggi che avrebbero scoraggiato chiunque. Amava andare lento, ammirare la natura e i paesaggi, esaltarsi nelle loro descrizioni, colloquiare con contadini e pastori, entrare nell’anima dei luoghi e della gente che li abitava. Era un narratore sopraffino, e un descrittore senza eguali”.

Periplo calabrese: lupimannari, incompetenti e pastori leggendari

Norman Douglas aveva compiuto un lungo periplo della Calabria che lo aveva condotto, attraverso il Pollino e la Sila, sino a Catanzaro e poi, dopo aver attraversato l’Aspromonte “calamita delle nuvole”, da Caulonia alle alture delle Serre. Tra le strade e lungo le vie dei paesi calabresi il suo sguardo aveva oscillato tra il presente spesso di degrado, l’ammirazione per i paesaggi naturali e le tracce del passato greco-romano che, da glottologo non di professione, inseguiva nelle etimologie e, da etnografo forse non intenzionale, negli usi pagani talvolta intravisti dietro il “velo” di tante manifestazioni e pratiche religiose. Non rinunciando, da tenace esploratore di sauvagerie e curiosità, a soffermarsi con ironia sull’incontro con un lupomannaro, quasi moderno epigono di un’epidemia di licantropia che aveva avuto luogo nel Medioevo a Cassano: “Avevo sempre aspirato a incontrare un lupomannaro durante i suoi vagabondaggi notturni ed ora venivo soddisfatto. Ma era una delusione vederlo vestito da uomo – anche i lupimannari dunque, a quanto pare, devono seguire la moda corrente. Questa enigmatica creazione della mente umana si trova spesso in Calabria, ma non ne parlano volentieri. I lupimannari più all’antica non abbandonano le loro abitudini vere, versipellis, e in questi casi soltanto i maiali, gli inutili maiali calabresi, possiedono la facoltà di riconoscerli durante il giorno, quando essi hanno l’aspetto di un qualunque altro «cristiano»”. E quante scoperte, per il suo “catalogo” di usi tradizionali, nei paesi albanesi di Calabria: “Bisognerebbe trovarsi qui a Pasqua per vedere le rusalet, quelle danze pirriche in cui i giovanotti si raggruppano in costume guerresco e marciano per le vie tra cori e canti; ben presto l’America porrà termine a queste usanze”. Analogamente, rischiavano di scomparire o erano già scomparsi pure alcuni strumenti musicali della tradizione, quali il doppio flauto e l’antica chitarra albanese, che Douglas rievocava. E in questa trasformazione delle consuetudini l’America dell’emigrazione delle popolazioni calabresi giocava un ruolo non marginale, con i mariti oltreoceano e le donne non emigrate rimaste nei paesi che modificavano alcuni loro stili di vita. Apprezzato San Giovanni in Fiore per la godibilità della sua temperatura estiva, ma non sicuramente per la sua igiene (“contiene la sporcizia accumulata di una città orientale, senza possederne le tinte splendenti e i profili armoniosi”) tanto da immaginare sé stesso nei panni del sultano del paese pronto a cominciare la sua opera di governo con un “bombardamento” visto che c’era “ben poco da salvare”, erano soprattutto i “pastori leggendari” della Sila ad aprire uno spazio di bucolico incanto: “Giovanetti ricciuti, sdraiati sub tegmine fagi nel miglior stile di Teocrito e occupati a deliziare le loro greggi a suon di flauto. Di solito, salgono ai monti per l’estate delle pianure joniche. S’incontrano anche creature ancor più primitive – ragazzi della foresta vestiti di pelli, dagli occhi ardenti e dai riccioli arruffati, che si divertono maliziosamente a dare indicazioni errate a chi chiede loro la strada”. Raggiunta quindi Catanzaro, le frequenti visite al museo civico della città erano occasione per una sapida critica di abitudini “patriarcali” che conducevano a dare un lavoro non a chi fosse “all’altezza del compito”, bensì a chi, come la guardiana del museo, ne avesse “bisogno” nonostante la sua evidente incompetenza: “Sul marciapiede della stazione di Reggio […] mi capitò una volta di contare cinque capistazione e quarantotto funzionari ferroviari che gironzolavano intorno con perfetta inefficienza. Che facevano? Nulla. Erano come questa donna: avevano bisogno di un impiego”. E altrettanto “bisognosi” e incompetenti erano il “poveretto con un braccio solo” a cui era stata affidata la pulizia delle strade, il “vecchio contadino barcollante” che era stato adibito a un pontile da sbarco pur non avendo mai maneggiato un remo in vita sua, il segretario che riusciva a stento ad apporre la sua firma.

La caccia dei serresi ai parenti-briganti 

Prima di arrivare a Serra, un’ampia digressione sulla presenza della malaria lungo la costa jonica calamitava l’attenzione di Douglas: la battaglia contro la malattia dell’illuminato dottor Francesco Calabrese, le statistiche sulla mortalità, causata dalle febbri malariche, che stava divorando le popolazioni del luogo, i progressi nell’impiego del chinino pur guardato con sospetto dai contadini. Malaria di cui non esisteva traccia, annotava Douglas, nel “paradiso terrestre” dei villaggi di montagna che precedevano “Fabbrizia” e Serra, la quale aveva “fama” di essere “uno dei luoghi più bigotti di Calabria”: “Un fatto di cui si avvalse l’abile generale Manhes quando mise a punto il suo efficace e originale progetto di punire gli abitanti per una manifestazione di atrocità. Fece arrestare tutti i preti del posto e li fece imprigionare; le chiese furono chiuse e la città fu posta sotto ciò che si può definire un interdetto. […] Nessun matrimonio religioso, nessun battesimo, nessun funerale – il conforto del cielo rifiutato tanto ai morti quanto ai vivi … la tensione divenne intollerabile e, nel panico del rimorso, la popolazione diede la caccia ai propri parenti-briganti e li consegnò a Manhes che li fece debitamente giustiziare; uno per uno”. Pagato il proprio tributo letterario a uno degli episodi più famosi del brigantaggio nel decennio napoleonico, non un solo rigo veniva dedicato alla descrizione della “tanto decantata abbazia dei certosini”, che, come Douglas dichiarava, apparteneva oramai ai suoi interessi passati “allorché studiavo la ponderosa opera di Tromby e Dio sa quante altre … già, e trascorrevo due preziose settimane della mia vita a decifrare certi illeggibili manoscritti del Tutini nella biblioteca Brancacciana” e leggeva il libro del Perrey sulla controversia fiscale del Settecento e si recava “in pellegrinaggio a Roma a consultare l’attuale generale dei certosini”. Curiosamente, soltanto la dieta dei monaci sembrava meritevole di qualche considerazione: “Poi che la carne è proibita, la divina confraternita ha un contratto affinché il pesce venga portato su quotidianamente, per mezzo del servizio postale, dalla lontana Soverato. E che succede, chiesi io, se non se ne pesca neanche un po’? «Eh bien, nous mangeons des macaroni!». Una dieta simile non mi garberebbe punto. Lasciate che io mi ritiri in un monastero dove si possa indulgere a tendenze carnivore”.

Un tempio non eretto da mani umane

Del resto, ben più che le celle della Certosa, era il “tempio non eretto da mani umane” dietro il monastero a soddisfare l’esigenza di “sacro” di Douglas: “Sul retro del monastero c’è una maestosa foresta di abeti bianchi – null’altro salvo gli abeti; una regione insolita per quel che riguarda l’Italia meridionale e centrale. Ero lì, nell’ora dorata che segue il tramonto, e di nuovo nella luce fioca del mattino madido di rugiada; e mi sembrava che in questo tempio non eretto da mani umane risiedesse una magia più naturale e più sacra, che non negli ambulacri dei chiostri poco lontani. Questo raggruppamento di alberi solenni è sopravvissuto grazie alle rare condizioni del suolo e del clima. La regione è alta; il suolo è perennemente umido e intersecato da un’orda di ruscelli che riuniscono le loro acque per formare il fiume Ancinale; frequenti scrosci di pioggia scendono dall’alto. Serra San Bruno ha un regime di precipitazioni piovose di insolita abbondanza. Sta in una valletta che occupa il bacino di un lago pleistocenico e la foresta, ora limitata a un solo lato del bacino, la circondava completamente in tempi passati”. Otto secoli prima di Douglas era stato Bruno di Colonia a rimanere stupefatto dinanzi al medesimo spettacolo naturale, che aveva osservato con un atteggiamento, com’è stato notato, di autentica contemplazione estetica del paesaggio, lodandone l’amenità, la pianura “vasta e piacevole” estesa per lungo tratto tra i monti, le praterie verdeggianti e i floridi pascoli, il recesso delle valli ombrose e la ricchezza di fiumi, di ruscelli e di sorgenti. Un’intelligente politica di promozione del territorio non dovrebbe fare di queste e altre consimili pagine (si pensi alle osservazioni di Boccaccio, ad Alvaro, ai tanti altri sedotti dalla meraviglia della natura serrese) il proprio breviario, trovare il modo di porle come veri e propri segnavia per chi si incammina lungo queste contrade?

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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